È piacevole rivivere, di tanto in tanto, il potere evocativo di certi odori. Dopo essere entrati nel naso, richiamano alla mente ricordi che pensavi di aver dimenticato. Il profumo dell’erba appena tagliata fa riemergere l’immagine delle mattine fresche trascorse a falciare. L’odore pulito e leggero dell’aria che preannuncia la prima neve rievoca il momento in cui, bambini, si usciva di casa, con la bocca aperta, per catturare i primi fiocchi e sentirli sciogliersi sulla lingua. In quegli attimi mi chiedo quali profumi avranno questo potere evocativo sui miei figli. Saranno altri, forse. Magari l’odore della nebbia novembrina. Per loro sarà certo difficile ritrovare la freschezza cristallina tipica delle giornate d’inverno. Non sono cresciuti in montagna. E poi, il cambiamento climatico si è portato via, almeno alle basse quote, questa meraviglia. Non lo dicono i nostalgici, ma i dati scientifici.
Secondo MeteoSvizzera, il numero di giorni di neve sotto gli 800 metri è diminuito del 50% rispetto al 1970, e a 2000 metri del 20%. Eppure, di fronte all’evidenza dei fatti, il mondo sembra impegnato in una partita alle «belle statuine»: perde chi osa muoversi per primo. Alla COP29 di Baku, in Azerbaijan, i rappresentanti di quasi 200 Paesi hanno discusso sull’importo da destinare al finanziamento di progetti per la riduzione delle emissioni di gas a effetto serra e per l’adattamento ai cambiamenti climatici. Solo sul filo di lana, gli Stati Uniti, l’Europa e una manciata di Stati industrializzati hanno approvato un testo che li impegna a devolvere al Sud globale 300 miliardi di dollari all’anno entro il 2035. Questo importo è tre volte superiore all’impegno precedente, ma resta lontano dai 1000 miliardi chiesti dai Paesi più poveri. Sull’accordo incombe poi l’ombra della seconda presidenza di Donald Trump, che in campagna elettorale ha promesso di ritirare nuovamente gli Usa dall’Accordo di Parigi e di promuovere le attività di trivellazione, impegno riassunto nello slogan «Drill, baby, drill».
Intanto, il 2024 si preannuncia come l’anno più caldo mai registrato da quando si misurano le temperature globali. Il programma Copernicus, il servizio di monitoraggio climatico dell’Unione europea, ha annunciato che la colonnina di mercurio supererà il limite di 1,5 °C rispetto ai livelli preindustriali, soglia stabilita nell’Accordo di Parigi del 2015. Quest’anno, in Svizzera, abbiamo già sperimentato le drammatiche conseguenze di tale evoluzione, con piogge torrenziali, piene improvvise e colate detritiche che hanno lasciato dietro di sé distruzione e morte.
Per capire quale impatto avrà l’aumento costante e inarrestabile delle temperature globali sulle nevicate e sul turismo invernale, l’associazione Funivie Svizzere ha chiesto a degli esperti di delineare possibili scenari futuri. Il professore dell’Istituto di ricerca sull’atmosfera e sul clima del Politecnico federale di Zurigo, Reto Knutti, insieme ad altri specialisti, aveva il compito di rispondere alle seguenti domande: di quanto aumenterà la temperatura entro il 2050? A quale altitudine si troverà lo zero termico tra circa 30 anni? Quanti giorni di gelo e ghiaccio si prevedono nell’inverno 2050 e con quali conseguenze sulla coltre nevosa? Il documento Klimaszenarien Winter 2050, presentato in novembre, prospetta un avvenire preoccupante per le stazioni sciistiche della Svizzera. Dall’inizio delle misurazioni nel 1864, le temperature invernali in Svizzera sono aumentate di circa 2,4 °C, un fenomeno strettamente legato alle attività umane responsabili dei cambiamenti climatici. Si prevede un ulteriore aumento di circa 1 °C entro il 2050. Di conseguenza, lo zero termico si è innalzato di circa 300-400 metri dal 1960 e si prevede che aumenterà di altri 300 metri entro il 2050, riducendo i giorni in cui sarà possibile utilizzare i cannoni sparaneve. Inoltre, la copertura nevosa naturale è diminuita in modo significativo e gli esperti stimano un’ulteriore riduzione compresa tra il 10% e il 30% entro il 2050. Questa tendenza sarà maggiore alle basse e medie altitudini, mentre le alte quote saranno molto meno colpite.
La crescente difficoltà nella produzione di neve artificiale avrà gravi conseguenze sul turismo invernale. Già oggi molti impianti di risalita sotto i 1500 metri sono in difficoltà. E così, in Svizzera, è facile imbattersi in sciovie dismesse, simbolo di un cambiamento inevitabile. Daniel Anker, giornalista e autore di diversi libri di montagna, è andato alla scoperta di questo passato. Nella guida escursionistica Après Skilift presenta una cinquantina di itinerari lungo i pendii dove un tempo era in funzione uno skilift. In questa sua ricerca ha esplorato i segni della cultura legata alla pratica dello sci. L’autore racconta che, ad esempio, di domenica gli abitanti di Intragna prendevano l’autopostale per Moneto, nelle Centovalli, e seguivano le discese dei giovani sciatori comodamente seduti in un ristorante. Un altro testimone di un glorioso passato si trova in cima al Monte Lema, dove è ancora visibile il blocco di cemento a cui era ancorato il cavo dello skilift. Con la scomparsa delle sciovie a basse quote, si perdono preziosi momenti di incontro. Negli anni 40 e 50, quasi ogni paesino della Svizzera, dal Giura all’Altopiano e naturalmente nelle Alpi, aveva il suo skilift. Qui i bambini, nei pomeriggi liberi, si lanciavano in discese funamboliche, con sci di legno allacciati ai piedi.
Lo sci era un passatempo popolare, considerato lo sport svizzero per antonomasia. Visti i costi operativi crescenti, gli investimenti in infrastrutture moderne e la produzione di neve artificiale, gli skipass hanno ormai raggiunto prezzi proibitivi. Nei comprensori più rinomati, una giornaliera può superare i cento franchi nei giorni di maggiore affluenza. Secondo Reto Gurtner, presidente della Weisse Arena Gruppe di Laax, entro il 2034 i prezzi potrebbero raggiungere addirittura i 200-300 franchi. E allora, quali ricordi ci rimarranno dei giorni di neve di oggi? Forse il collasso del traffico sulle strade e sui binari di alcune settimane fa, la poltiglia grigiastra sui marciapiedi oppure i nervi a fior di pelle dei pendolari bloccati sul percorso casa-lavoro? Sono ricordi amari, frutto anche delle scelte che facciamo oggi per proteggere il nostro pianeta.