Trump (sulla sinistra, vicino a Xi Jinping) in campagna elettorale ha evocato addirittura tasse doganali del 60% (Keystone)

Il ritorno di Trump preoccupa la Cina

by Claudia

Donald Trump si insedierà alla Casa Bianca solo il 20 gennaio, ma ha già aperto l’offensiva contro Xi Jinping minacciando dazi del 10% sulle importazioni dalla Cina. Con due precisazioni importanti. Anzitutto, questi dazi andrebbero ad aggiungersi a quelli già esistenti, introdotti dalla prima Amministrazione Trump nel 2018 e poi mantenuti o alzati da Joe Biden. Secondo, questi dazi li ha minacciati solo per costringere Pechino a cessare le esportazioni di componenti chimici per il Fentanyl, la droga che fa strage di tossicodipendenti americani. Non escludono altri dazi mirati invece a ridurre lo squilibrio commerciale: in campagna elettorale Trump evocò addirittura tasse doganali del 60%.

La Cina che si appresta ad affrontare il Trump Due è molto diversa da quella del 2016, l’anno della prima elezione del repubblicano. In otto anni molte cose sono cambiate: pandemia, guerra in Ucraina, economia cinese in stagnazione. Per certi versi questa Cina è più debole, per altri è più forte. Un aspetto-chiave, visto che Trump ha promesso un protezionismo ancora più aggressivo, è che la dipendenza di Pechino dalle esportazioni è cresciuta. Quindi Xi Jinping è ancora più vulnerabile di otto anni fa, in caso di escalation dei dazi Usa.

Comincio con un dato quasi comico, surreale, che dà la misura dell’inasprimento delle tensioni accumulatesi fra le due superpotenze. Per la prima volta da quando Stati Uniti e Repubblica Popolare stabilirono relazioni diplomatiche formali (nel 1979, sette anni dopo il disgelo Nixon-Mao, sotto la presidenza Carter), abbiamo un potenziale segretario di Stato Usa sotto sanzioni e quindi con divieto di ingresso in Cina. Si tratta del senatore repubblicano Marco Rubio. Per adesso è solo un segretario di Stato designato, la sua nomina non è ufficiale e dovrà passare al vaglio del Senato. È una delle designazioni meno controverse, fra quelle già annunciate da Trump. Rubio come senatore si è occupato molto della Cina, in passato contribuì all’elaborazione di politiche dure, comprese delle sanzioni legate ad abusi contro i diritti umani a Hong Kong e nello Xinjiang. Pechino reagì castigandolo a sua volta, mettendolo nell’elenco di alcuni politici americani sanzionati con il divieto di visto. Non si prevede uno scontro su questo, però. A Pechino voci autorevoli hanno già spiegato che, senza bisogno di fare retromarcia, il Governo cinese può stabilire che il privato cittadino Rubio resta «persona non grata» ma il segretario di Stato Rubio in quanto rappresentante del Governo avrà la possibilità di effettuare visite ufficiali…

Per dare la misura di quanto le relazioni siano peggiorate in questi otto anni: la designazione di Rubio in realtà è stata accolta con un sospiro di sollievo dai cinesi. Per quanto il senatore della Florida sia un «falco» sulla Cina, c’è di peggio, molto peggio. Pechino temeva di più un ritorno di Mike Pompeo, ex segretario di Stato. Pompeo era arrivato ad auspicare una rivolta del popolo cinese contro i suoi leader comunisti. Nel libro di memorie pubblicato dopo la sua esperienza in Governo, Pompeo si dice favorevole al riconoscimento diplomatico di Taiwan, come uno Stato sovrano: provocazione inaccettabile per la diplomazia cinese che esige il rispetto del principio «esiste una sola Cina». Un altro trumpiano di cui i comunisti paventavano il ritorno è Robert O’Brien, già consigliere per la sicurezza nazionale: lui teorizza un disgelo con la Russia per spaccare l’alleanza fra Putin e Xi. Si capisce che Rubio sia considerato il male minore.

Ad applicare le scelte sui dazi nel Trump Due nel ruolo di Trade Representative sarà Jamieson Greer che fu il braccio destro di Robert Lighthizer, il responsabile del commercio estero che guidò la prima ondata di dazi. Quella cominciò oltre sei anni fa con tasse doganali del 25% contro le importazioni dalla Cina di pannelli solari, lavatrici, acciaio e alluminio. Poi l’Amministrazione Biden vi aggiunse altri dazi: contro auto elettriche, batterie, altre tecnologie legate alle energie rinnovabili, e semiconduttori. Ora a che punto siamo? Per certi versi la Cina si è difesa bene. Ha conquistato la Russia, che per effetto delle sanzioni occidentali è costretta a comprare molto più di prima da Pechino. La Cina ha anche firmato nuovi accordi commerciali, soprattutto nel sud-est asiatico e nell’Indo-Pacifico. È ormai il primo partner commerciale per la maggioranza dei Paesi africani e sudamericani. Ha quindi diversificato i propri sbocchi commerciali. Rimane tuttavia un’economia eccessivamente dipendente dalle esportazioni: il suo attivo commerciale globale dovrebbe raggiungere il record storico del trilione, mille miliardi di dollari. Esporta un po’ meno negli Stati Uniti, ma sempre troppo: 430 miliardi di dollari. Se Trump infligge dazi del 60% il colpo sarà duro.

Oxford Economics ha stimato che dazi di questa entità possono abbattere l’export cinese verso l’America dal livello attuale che è il 14% sul totale degli acquisti Usa dal resto del mondo, fino al 4%. La banca svizzera UBS prevede che la crescita economica della Repubblica Popolare, già in pesante rallentamento, perderebbe l’1,5% di Pil. Queste previsioni rischiano di sottovalutare la capacità cinese di aggirare i dazi. In passato Pechino ha usato varie strategie per ridurre l’impatto di quelle tasse doganali. Una consiste nel «travestire» i propri prodotti facendoli transitare da Paesi come il Vietnam, esenti dai dazi americani: lì il «made in China» subisce pochissime lavorazioni o anche nessuna, ma riparte verso gli Usa con l’etichetta «made in Vietnam». Vari Paesi del sud-est asiatico si sono prestati al gioco. Però Trump minaccia di estendere l’applicazione dei nuovi dazi ad altri Paesi e quindi questa strada potrebbe chiudersi. Un altro sotterfugio è offerto dalla legge statunitense De Minimis, che esenta dai dazi vendite in modica quantità attraverso canali del commercio elettronico, tipo Amazon. Una parte delle esportazioni cinesi si sono riversate sul commercio online. Però la legge De Minimis è in corso di revisione al Congresso di Washington e potrebbe chiudersi anche questo canale. C’è poi tutta la pressione che le lobby americane eserciteranno per ottenere esenzioni di varia natura dai dazi (mi riferisco alle tante aziende che importano dalla Cina, anche componenti e semilavorati da usare nelle loro produzioni): si vedrà se il Trump Due sarà capace di tenere duro. Infine c’è la strategia cinese delle delocalizzazioni, per esempio in Messico: pure su queste il Trump Due minaccia di intervenire. Ha minacciato dazi del 25% contro Messico e Canada.

Se il mercato americano dovesse diventare sempre meno accessibile alla Cina, è certo che Xi darà un’accelerazione alla sua spinta diplomatica e commerciale verso il Grande Sud Globale, nonché verso l’Europa: rilancerà i tentativi di dividere gli europei dalla nuova Amministrazione americana. Su un altro fronte Xi può reagire ai dazi americani con delle forme di embargo che neghino agli Usa l’accesso a terre rare e minerali strategici: dove l’egemonia cinese si è rafforzata negli ultimi anni. In conclusione, la Cina è esposta ai danni di una nuova ondata protezionista perché ha costruito un modello economico in cui i consumi interni sono sacrificati, di conseguenza è costretta a esportare enormi eccedenze di produzione industriale. Né l’aiuta il fatto che il Trump Due arrivi mentre la Repubblica Popolare non è uscita dalla crisi immobiliare, con le ricadute che questa ha sul debito dei suoi enti locali e delle sue banche.

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