«Lo sport travalica i confini. Siamo tutti fratelli. Lo spirito olimpico ci accomuna. Gli avversari sono rivali, non nemici».
È retorica che appartiene a un mondo ideale. In realtà, l’etimologia stessa del termine agonismo ci insinua il dubbio che antropologicamente ci sia di più. Da «agon», parola greca che significa gara, rivalità, lotta, si giunge ineluttabilmente ad «agonia», l’ultima lotta della vita contro la morte. Di fronte a questo percorso, i concetti di nazionalità, patria, senso di appartenenza scivolano in secondo piano.
Se uno scienziato, un architetto, un letterato cambiano nazionalità, nessuno eccepisce. Ci va bene che siano cittadini svizzeri il romanziere Hermann Hesse, l’architetto Santiago Calatrava, il fisico Albert Einstein. A loro nessuno ha richiesto di issare la bandiera rossocrociata. Nessuno ha mai preteso che, la mano sul cuore, cantassero il salmo svizzero il primo di agosto. Lo pretendiamo per contro dagli sportivi. Perché? È così fondamentale che lo sport sia un terreno di coesione nazionale?
Non saprei cosa rispondere. Probabilmente lo è. Lo si percepisce in tribuna, sentendo appassionati delle quattro regioni linguistiche sostenere la nostra Nazionale in un unico afflato. Ma questa è una storia che riguarda noi che stiamo al di qua del fronte. In trincea, i guerrieri vedono altri orizzonti. Non sono dei soldati di milizia. Sono dei professionisti. Sono attori, clown, funamboli che ci regalano gioia ed emozioni difendendo gli interessi del loro datore di lavoro. E oggi, più che mai, il datore di lavoro lo si può cambiare. Magari anche più volte, come ad esempio il ciclista Andrei Tchmil, che in carriera ha difeso i colori di Unione Sovietica, Moldavia, Ucraina e Belgio. O la ginnasta Oksana Ćusovitina, che ha vestito le insegne di Unione Sovietica, CSI, Uzbekistan, Germania, infine ancora Uzbekistan.
Opportunismo? Direi che si tratta piuttosto di una questione di opportunità. L’atleta cerca impiego là dove pensa di trovare le migliori condizioni. Da noi, molti secondos hanno scelto di vestirsi di rossocrociato, anche se la Svizzera non è la terra dei loro padri. Hanno ottenuto il passaporto e, piano piano, hanno cominciato a percepire un senso di appartenenza. Il fatto che calciatori di origine kosovara abbiano scelto di continuare a difendere le ragioni di Helvetia, anche dopo che il loro Paese è stato riconosciuto dalla comunità internazionale, ne è la testimonianza. Ci sta che Brel Embolo non esulti dopo la rete segnata al Camerun delle sue origini. Ci sta che Kubilay Türkyilmaz si ponga dei problemi nello sfidare la Turchia dei suoi avi. Il loro attaccamento alla maglia non ne esce sminuito. Anzi, a mio modo di vedere, sono loro a uscirne ingigantiti sul piano umano.
Nello sport, cambiare casacca può anche essere una questione di vita. Non penso allo sciatore Marcel Hirscher, già ricolmo di gloria e di denaro che, cinque anni dopo il suo addio alle competizioni, torna a gareggiare sotto le insegne dell’Olanda, paese di origine di sua madre. E neppure a Lucas Braathen che, in rotta con la federazione norvegese, si concede un anno sabbatico di ripensamento, e torna in pista aggiungendo il cognome materno Pinheiro, per difendere i colori di un paese, il Brasile, non proprio in sintonia con lo sci alpino.
Penso invece al Memorial Arturo Gander vinto di recente a Chiasso dalla 17enne algerina Kaylia Nemour. Lo scorso anno è stata la prima ginnasta africana a salire sul podio iridato. In agosto è stata la prima a conquistare un oro olimpico. Era un talento predestinato.
Nata e cresciuta a Saint-Benoît-la-Forêt, nel Centro-Valle della Loira, è francesissima culturalmente e affettivamente, nonostante le origini algerine del padre. Tuttavia, dopo due infortuni alle ginocchia, il medico della nazionale transalpina l’ha messa alla porta: «No, tu non puoi gareggiare». E questo nonostante il parere positivo del suo specialista personale. Le conseguenze sono logiche: Kaylia si rivolge alla Federazione algerina, che le spalanca l’uscio. La Federazione internazionale di ginnastica impartisce la sua benedizione. L’ostracismo dei francesi la blocca per dodici mesi. Kaylia torna quindi in gioco e sbanca Mondiali e Olimpiadi. Morale: negli uffici federali francesi affiorano invidia e frustrazione.
A Chiasso, la ragazza è seguita da una «troupe» televisiva che sta girando un documentario sulla sua ancora breve e luminosissima esistenza. Giornalista, cameraman e fonico non sono algerini. Indovinate per chi lavorano? Bravi, avete indovinato, per un network francese.