Un giardino non del tutto paradisiaco

È possibile che un romanzo che narra di traumi profondi, della perdita di persone importanti sia al contempo divertente, bello da leggere e anche avvincente? Sì, Paradise Garden, il romanzo d’esordio di Elena Fischer, già bestseller in Germania e appena pubblicato da Gramma Feltrinelli, è una di quelle rarissime creature che hanno il dono di coinvolgerti sin dalle prime pagine, facendoti toccare con mano non solo i drammi dei suoi protagonisti, ma anche la loro voglia di vita, il desiderio di ricostruirsi nonostante tutto e tutti un’altra esistenza. È precisamente questa la spinta vitale di Billie – all’anagrafe Erzsébet, nome ungherese – una ragazzina di 14 anni molto sveglia, sempre pronta ad affrontare, con una punta di sano cinismo, i risvolti più intricati della vita.

Billie vive con sua madre Marika, una donna ancora giovane, di origini ungheresi appunto, di cui solo un po’ alla volta veniamo a scoprire i segreti. Sono accampate in un appartamentino di due stanzette, in uno di quei casermoni popolari alla periferia di una metropoli tedesca. Marika ha un carattere indomabile, è impetuosa al massimo e di lavori ne fa due: di giorno, è la (pallida) donna delle pulizie in un ufficio tutto vetri e anonimi impiegati. Di sera, eccola nei panni della cameriera avvenente, jeans attillatissimi e stivaloni bianchi (con ciliegie ai lati) in un bar notturno. La precarietà del quotidiano è insomma tanta; Billie e Marika sono costrette a rigirare ogni centesimo per arrivare a fine mese, e il loro menù consiste di cibi riscaldati nel microonde. Il loro minuscolo nido è arredato con mobili rappezzati, e un divano blu trovato per strada. Eppure, nonostante le mille ristrettezze, la loro vita scorre serena, come in un «Paradise Garden» tutto loro e artificiale.

Sì, certo, Marika, che da ragazza a Budapest ha studiato danza classica, con i suoi spasimanti ha avventure che durano un weekend. Il casermone in cui vivono, passandoci le estati intere su due sdraio nel ballatoio, è quel che è. Eppure, i loro vicini sono brave persone: Ahmed, il ragazzo con le ciglia più lunghe del quartiere, è un fedele musulmano, un pugile e dà sempre pacati consigli alle due donne. Per non parlare delle torte che quella stralunata di Luna sforna in continuazione e offre a Billie.

Tutto sommato dunque la vita di Billie e di sua madre è una sorta di idillio, che rischia di trasformarsi in un vero «paradiso» nel momento in cui vincono un premio in denaro azzeccando alla radio il titolo di una canzone. E così, per la prima volta nella loro magra esistenza, eccole pronte con la loro scalcinata Nissan a partire per le vacanze, in Francia, al mare (quello vero, e non sul ballatoio).

Devo ammetterlo: i primi otto capitoli del romanzo sono quanto di più fresco ed esilarante abbia letto negli ultimi tempi. Billie, ad esempio, visto che sua madre l’ha educata a essere sempre sé stessa e sincera, sputa sentenze come un caustico genietto. Come sua madre poi, anche lei è coraggiosa, e riesce persino a buttarsi in piscina dai dieci metri.

Poi, giunti al nono capitolo, l’autrice cambia tono e registro: sulla porta dell’appartamentino compare da Budapest la nonna di Billie, mamma tutta d’un pezzo di Marika, una sessantenne ultra cattolica e tradizionalista. E l’armonia fra mamma e figlia, la loro vita (e quella dei loro vicini) in un attimo va in frantumi. È vero che la nonna cucina le pietanze ungheresi in modo divino. Ma il rapporto fra Marika e sua madre è a dir poco disastroso, ed Elena Fischer sa dipanare in modo meraviglioso l’intricato passato di Marika, i motivi che l’hanno portata a scappare, giovanissima, da casa, a rompere con la madre, con la danza, con Budapest, e a restare incinta (di «uno stronzo», si legge nel romanzo) rifugiandosi in Germania sul Mare del Nord (ma questo il lettore lo scoprirà solo negli ultimi capitoli).

Insomma, l’atmosfera nell’ex «Paradise Garden» è tesa, tanto che una sera, tornate dall’ospedale, dove la nonna ha fatto degli esami, tra mamma e figlia si arriva ai ferri corti, e volano non solo parole cariche di odio. Dopo una spinta della nonna infatti Marika perde l’equilibrio, e va a sbattere sullo spigolo del tavolo. Solo lì comprendiamo meglio le prime righe del romanzo, che anticipavano il funerale della povera Marika, e le reazioni di Billie: «Mia madre è morta questa estate».

Ovvio che la ragazza rimasta sola (la polizia ha arrestato la nonna per accertamenti) si avvita in una crisi devastante, ritrovandosi da un giorno all’altro completamente a pezzi. Dopo il funerale, e le prime mestruazioni, Billie si ritrova in un orfanotrofio, da cui fugge camuffandosi con una strana parrucca azzurra (il dolore le ha estirpato i capelli a ciuffi). Nel tunnel in cui è ormai incastrata solo un punto di luce può ridarle un filo di speranza: la ricerca del padre. Ma dove cercarlo se Marika si è sempre rifiutata di parlarne?

Le pagine in cui Billie girovaga alla ricerca del padre a bordo della Nissan (oltre a buttarsi dai trampolini in piscina, Marika le ha insegnato anche a guidare), sono fra le più lucide del romanzo. Tanto più che alla fine, Billie riesce davvero a ripescare, su un’isoletta sperduta del Mare del Nord, suo padre. O almeno una figura maschile che potrebbe diventarlo, dato che Marika non le ha rivelato neanche questo. Il fatto cioè che Billie non è venuta al mondo in Germania, ma in Ungheria. E che l’uomo che lei ha appena ritrovato non è il padre-biologico, ma è come se lo fosse, dato che accolse Marika in fuga con la piccola Billie che aveva sei mesi.

Cosa ci raccontano allora le persone, anche quelle a cui teniamo di più, della loro vita, e cosa ci nascondono? Di chi possiamo fidarci quindi, e su cosa si fondano le relazioni e quei percorsi strampalati, senza né capo né coda che chiamiamo «vita»? Una piccola, grande opera questa di esordio di Elena Fischer, per tentare di districarsi in queste che, sino a prova a contraria, sono le questioni fondamentali dell’esistenza, più o meno agiata, più o meno precaria di ognuno di noi.

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