Il diario pubblico di un intellettuale

by Claudia

Edita dal Saggiatore una selezione di interventi civili dell’importante filologo romanzo Cesare Segre

In un’epoca in cui si pensa di sostituire i giornalisti con gli algoritmi dei Large Language Models (AI), pronti quindi ad accettare gli esiti che sempre si prospettano quando si investe soltanto sul risparmio di tempo a discapito della qualità dell’approfondimento e dell’informazione, c’è da chiedersi quale possa essere oggi, nei media, il ruolo degli «intellettuali» (posto che questa parola continui ad avere un senso, o che la categoria stessa esista ancora). Tocca l’argomento – lo cito en passant – David Bidussa nel suo recentissimo Pensare stanca. Passato, presente e futuro dell’intellettuale, appena uscito per Feltrinelli; ma è tema che ci porterebbe lontano.

Per passare dal generale al particolare, se c’è una persona che ha indossato la veste pubblica dell’intellettuale con sobrietà e coraggio è stato, negli ultimi anni, Cesare Segre, filologo romanzo tra i più importanti del Novecento, critico letterario appassionato di strutturalismo nonché uno dei fondatori, con Maria Corti e Dante Isella, della cosiddetta scuola pavese.

Nonostante questo pedigree accademico, che avrebbe quasi potuto autorizzarne il confinamento in una torre d’avorio, Cesare Segre non ha mai disdegnato di intervenire su periodici e quotidiani a larghissima divulgazione, da «Panorama» a «Il Giorno» al «Corriere della Sera» (persino sul nostro «Corriere del Ticino»). Ne offre un ricco ed esaustivo assaggio la selezione antologica appena curata da Paolo Di Stefano per Il Saggiatore, quasi 300 pagine racchiuse sotto il titolo, significativo e persino un po’ provocatorio (dati i tempi), di Diario civile.

Andrà sottolineato innanzitutto come Di Stefano sia stato, della lunga frequentazione di Segre con il «Corriere della Sera», un pezzo di parte in causa, dato che per anni ha avuto il piacevole compito di tenere i contatti con il filologo e di concertare assieme a lui i suoi contributi mensili per il quotidiano di via Solferino. La collaborazione era iniziata in realtà prima del suo arrivo, nel febbraio del 1988, per iniziativa del direttore di allora (Ugo Stille) e dell’amico Corrado Stajano, e sarebbe continuata fino al novembre del 2013, a un passo dalla scomparsa di Segre (marzo 2014).

In 25 anni sono usciti qualcosa come 481 pezzi, di cui 86 ripresi in questa antologia, che opera una selezione intelligente a partire da alcuni criteri dichiarati: cercare, dove possibile, di evitare il «versante professionale», cioè la critica letteraria in senso stretto, per inseguire gli interventi più interessanti e duraturi (utili cioè al di là delle circostanze contingenti, e ancora vivi quindi per noi oggi) su temi di attualità, società, politica, etica, costume.

Non che Segre riesca – o voglia – abbandonare del tutto gli ambiti di propria competenza: se parla di costume, parla di lingua, se parla di politica parla di scuola, e così via, con un occhio gettato a intermittenza dal mondo dei libri e delle aule universitarie a quello della vita di tutti i giorni, in andata e in ritorno, con beneficio duplice per entrambe le sponde del grande mare della cultura.

Nella sua postfazione, Di Stefano individua in effetti cinque macro-temi attorno ai quali si coagulano le riflessioni di Segre in questo «diario in pubblico» durato un quarto di secolo: (1) la memoria dei nazifascismi e il costante pericolo di un loro ritorno; (2) i principali snodi storici e culturali che hanno contribuito a definire i dibattiti della nostra epoca; (3) il progressivo degrado della «società degli studi», incarnatosi in alcune infelici riforme scolastiche e universitarie; (4) i mutamenti linguistici di cui è stato oggetto l’italiano in tempi recenti; (5) vari contributi al dibattito sui destini della filologia e della semiotica, non senza prospettive critiche.

In quest’ultimo gruppo rientrano anche alcune commoventi pagine in ricordo di maestri e colleghi, nelle quali il Segre anziano richiama alla mente i meriti di chi ha percorso assieme a lui un pezzo di strada: da Gianfranco Contini a D’Arco Silvio Avalle, da Maria Corti a Dante Isella, da Lalla Romano a Giuseppe Billanovich.

Un posto speciale devono avere avuto però, anche presso il loro stesso estensore, i molti interventi sul tema della Shoah e delle grandi tragedie del Novecento.

È qui che il discendente di ebrei piemontesi, laico ma ben consapevole della propria tradizione culturale, offre il meglio del proprio sentire civile, come in questo passo del 2009 per la ricorrenza della Liberazione: «Per capire appieno il significato del 25 aprile giova, per esempio, aver visto (come chi scrive) l’esercito tedesco che, in fuga per la val di Susa, si ritirava verso Torino, ammazzando qua e là qualche poveraccio; avere negli occhi le truppe francesi d’Algeria che scendevano poderose dalla frontiera. Giova aver assistito all’improvvisa fraternità delle persone, che si abbracciavano gridando parole al vento, ma parole di felicità; giova averle viste ballare per le strade.

Giova essersi resi conto d’improvviso che ci si poteva muovere senza preoccupazioni, che l’invisibile ma dura prigione in cui eravamo tutti rinchiusi non esisteva più, e il mondo era aperto per chiunque».

Nient’altro che un invito, insomma, a fare contemporaneamente due cose: tenere lontano l’antisemitismo, e tenere vivo l’antifascismo.

Un esercizio non semplice, meno scontato di quanto possa sembrare a prima vista, come insegnano questi nostri tempi così tormentati e contraddittori.

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