Fiore mio, documentario di Paolo Cognetti, tenta di raccontare la montagna e l’emergenza climatica, ma manca di forza e autenticità
Fiore Mio di Paolo Cognetti si abbina in modo perfetto alla classica espressione: «Vorrei ma non posso». Anzi, meglio, «Vorrei ma non riesco». Manca praticamente tutto nell’opera prima (e si vede che è prima) dello scrittore milanese. Non c’è dinamica, non c’è forza, non c’è tensione narrativa (molto grave per uno scrittore come lui) e soprattutto non c’è senso in questo film senza capo né coda.
Presentato in anteprima sullo schermo di Piazza Grande durante l’ultimo Locarno Film Festival, è arrivato ora nelle sale cinematografiche della Svizzera italiana.
Il documentario è ambientato nell’estate del 2022 quando l’Italia si trova confrontata con un periodo di siccità e Paolo Cognetti vede l’esaurirsi della sorgente di casa sua a Estoul, piccolo borgo posto a 1700 metri di quota che sovrasta la vallata di Brusson. Un evento che lo sconvolge, tanto da far nascere in lui l’idea di voler raccontare la bellezza delle montagne, dei paesaggi e dei ghiacciai ormai destinati a sparire o a cambiare per sempre a causa del cambiamento climatico. E lo fa partendo con il suo cane Laki, verso il Monte Rosa.
Il viaggio lo porta a incontrare alcune persone che vivono in montagna come Remigio, Arturo Squinobal e sua figlia Marta, Corinne, Mia, e lo sherpa Sete. Tutti personaggi che sembrano usciti da una cartolina o da una pubblicità turistica, ognuno a raccontare la propria esperienza, ma sempre in modo scontato, superficiale e banale.
Come si diceva, la pellicola di Cognetti ha l’ambizione di raccontare la montagna, le persone che la abitano, la natura, e l’emergenza climatica. Ma non riesce a trasmetterne né forza, né autenticità. È poco più di un dépliant, anche un po’ new age (vedi le bandierine tibetane alla moda che attacca alla sua cascina e che fanno tanto «benedizione buddista»), dove non emerge la durezza del luogo e quindi la sua autenticità.
Cognetti sembra un turista della domenica che passeggia col suo cane, tra una cascina e l’altra. Gli elementi tipici della montagna (il vento, il freddo, la fatica, la profondità di una sensazione) sono praticamente assenti. Lui ci prova a ricrearli, ma il risultato è quello di vivere in un luogo finto, fasullo, dove l’intensità delle sensazioni che si provano su una montagna sono completamente assenti.
Provate a vedere Il cavallo di Torino di Béla Tarr e poi capirete di che cosa sto parlando. In quel film la forza del vento ti entra nei vestiti, attraversa la pelle e ti perfora le ossa. Qui, questa forza non si percepisce per nulla, poiché è tutto superficiale e senza forza. Anche i tentativi, maldestri, di inserire nel documentario un discorso sulla lingua e sui dialetti, non funzionano: i dialoghi non bucano lo schermo e si fermano a una semplice e banale chiacchiera da bar.
Non da ultimo – e non è meno grave – è l’autoreferenzialità. Le persone che vivono in montagna (salvo rari casi come quello di Mauro Corona) sono schive per definizione. Non amano mettersi in mostra. Scelgono quella vita anche per i silenzi e la solitudine tipica dei luoghi. Invece Cognetti si vuole molto bene.