Con la fuga a Mosca di Assad è uscito di scena uno dei macellai del Medio Oriente, un despota che bombardò con le armi chimiche la sua stessa popolazione civile. È un rovescio per tre protettori storici di Assad: Russia, Iran, Hezbollah. Putin ha speso immense risorse in Ucraina, la sua capacità di sostenere una sfera d’influenza geopolitica è indebolita, anche se non è del tutto tramontata (vedi gli eventi recenti in Romania, Georgia, diversi Paesi africani). L’Iran e Hezbollah hanno subito dei colpi formidabili da Israele. La caduta di Assad è un segnale di debolezza che investe due archi di potenze antagoniste all’Occidente: quello che gli ayatollah esaltano come l’Asse della resistenza (Iran, Hezbollah, Hamas, Houthi), e quello che gli esperti geopolitici americani definiscono l’Asse del caos (Cina, Russia, Iran, Corea del Nord). Un anno fa a quest’epoca erano passati poco più di due mesi dalla strage di Hamas. Israele sembrava in ginocchio: oltre all’orrore per l’atroce carneficina, gli stupri, le prese di ostaggi, incombeva una sensazione di impotenza e vulnerabilità. Le forze armate di Tel Aviv avevano subito una disfatta senza precedenti, l’intelligence del Mossad aveva una reputazione a pezzi. In tutto il Medio Oriente avanzava trionfante l’Asse della resistenza. La Siria e il Sud del Libano erano parte di una vasta area egemonizzata dalla teocrazia persiana. Come cambiano le cose in un anno. Dopo la fuga di Assad, le forze armate israeliane hanno preso posizione in Siria. Per capirne l’importanza, ricordo che nel 1973 la Siria fu alla guida della coalizione araba che scatenò la guerra dello Yom Kippur, cogliendo di sorpresa l’esercito israeliano e il Mossad: un precedente rievocato proprio il 7 ottobre 2023. Sembrò altamente simbolico, che Hamas avesse scelto di scatenare la sua mattanza nel cinquantesimo anniversario di quella guerra, che aveva messo in serie difficoltà Israele. Ora le forze armate di Tel Aviv hanno approfittato della caduta del regime Assad per occupare le alture del Golan, postazione strategica in territorio siriano. Hanno bombardato la flotta e diverse basi militari e arsenali di Damasco, infliggendo duri colpi a un Paese nemico. Gli ayatollah di Teheran in questo momento fanno la figura degli apprendisti stregoni: il 7 ottobre 2023 misero in moto delle dinamiche che in seguito sono sfuggite al loro controllo e si sono ritorte contro di loro.
Ma possiamo fidarci di chi ha deposto Assad? La milizia guidata da al Jolani, Hayat Tahrir al-Sham (HTS), è ufficialmente definita come un’organizzazione terroristica dagli Stati Uniti e diversi altri Paesi occidentali. Viene dalla galassia della jihad, la guerra santa islamista. Fu vicina sia all’Isis che ad Al Qaeda, anche se in seguito ha rotto con quelle organizzazioni e le ha combattute. Al Jolani ha preparato la sua vittoria contro il regime di Assad lanciando una offensiva di relazioni pubbliche a livello internazionale. Con interviste a media globali, da «Al Jazeera» al «New York Times», ha voluto rassicurare sia il mondo arabo che l’Occidente. Ha promesso di rispettare le minoranze religiose, tema cruciale in un Paese come la Siria che è un vero caleidoscopio etnico, dai curdi ai cristiani. Al Jolani vuole convincerci di essere il portatore di una versione soft dell’islamismo, depurata dagli aspetti più aggressivi e intolleranti. Alcuni esperti siriani in esilio invitano a prendere sul serio i propositi di al Jolani. Spiegano che siamo di fronte a una metamorfosi «nazionalista» di certe forze jihadiste: nel senso che esse vogliono imporre un regime islamista all’interno di una singola Nazione, non vogliono esportare la guerra santa, né organizzare reti terroristiche in Occidente. Un precedente evocato in queste analisi sono i nuovi talebani in Afghanistan: quelli tornati al potere a Kabul dopo la disastrosa ritirata degli americani nell’agosto 2021. I talebani sembrano aver rispettato un patto implicito: purché non diventino una piattaforma di lancio di attentati contro di noi (com’era accaduto ai tempi di Osama Bin Laden con l’attacco all’America dell’11 settembre 2001), a casa loro fanno quello che vogliono. È un patto che può indignarci moralmente, per le conseguenze sui diritti umani del popolo afgano, in particolare per la condizione delle donne. Ma se l’unica alternativa concreta doveva essere un’occupazione a tempo indefinito da parte degli americani (più altre Nazioni della Nato), quell’opzione ha cessato di esistere. L’idea di esportare diritti umani e democrazia con le armi funzionò poche volte e in circostanze storiche molto diverse (Italia Germania e Giappone dopo la Seconda guerra mondiale); il mondo islamico si è dimostrato refrattario.
La realpolitik nel caso della Siria post-Assad viene ormai abbracciata da Joe Biden e Donald Trump all’unisono, confermando che «fidarsi di al Jolani» sembra inevitabile, in mancanza di altre opzioni. Però è impossibile sapere oggi che cosa sarà la nuova Siria. HTS di al Jolani non è l’unica forza che aspira al controllo sul Paese. Ci sono altre milizie, alcune legate ancora all’Isis. Ci sono i curdi, alleati storici degli Usa, forse l’unica componente veramente laica. Ci sono i drusi. C’è l’apparato militare che ha tradito Assad mollandolo nelle ultime due settimane, ma può ancora giocare un ruolo. Queste componenti potranno accordarsi o scontrarsi: gli scenari in Egitto e Tunisia, Libia e Iraq offrono numerose varianti, nessuna attraente. Una chiave per capire se al Jolani manterrà le promesse di un islamismo soft riguarda la sua capacità di governare. A cominciare dall’ordine pubblico, dalla sicurezza e legalità interna. La decisione di aprire le carceri di Assad forse era inevitabile, per liberare i tanti prigionieri politici. Ma come spesso è accaduto in circostanze analoghe, insieme ai perseguitati del regime vengono rimessi in circolazione tanti criminali comuni. Le prime cronache da Damasco e da altre città «liberate» descrivono il tripudio della popolazione, però non mancano i primi segnali di saccheggi, rapine. Stando a valutazioni esterne, HTS dispone solo di 25’000 uomini armati, troppo pochi per garantire l’ordine su tutto il territorio della Siria. Qualche accordo con altre milizie, o con quel che resta dell’esercito regolare, sarà indispensabile a questo fine. Al Jolani sarà messo di fronte a un test. Se la sua milizia si rivela capace non solo di combattere ma anche di amministrare il Paese, se offre servizi essenziali dall’istruzione alla sanità, può essere premiato dal consenso sociale e quindi incoraggiato a concentrare le sue aspirazioni sulla dimensione nazionale. Se invece precipita nel malgoverno, nella corruzione, nell’inefficienza, nel caos e nelle rivalità tra fazioni, avrà la tentazione di cercare un capro espiatorio all’esterno: la distruzione di Israele e l’odio per l’Occidente sono le due classiche valvole di sfogo che diversi regimi arabi hanno cercato per occultare i propri fallimenti. In questo senso l’Occidente può avere interesse a prendere in parola al Jolani e offrirgli una sponda, qualche forma di appoggio esterno. Nell’attesa di verificare dalle sue azioni se sarà coerente con le promesse. L’alternativa è peggiore. La geopolitica non ama il vuoto. L’uscita di scena della Russia e dell’Iran ha creato un vuoto, per l’appunto. Al momento si candida a riempirlo la Turchia di Erdogan, un Paese membro della Nato ma spesso in rotta di collisione con interessi e valori dell’Occidente. Tra i prezzi che Erdogan chiede alla Siria c’è di sicuro una stretta contro i curdi. Per questa e altre ragioni, l’America farebbe bene a non disinteressarsi.