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L’importante non è vincere ma dare il massimo

by Claudia

La questione ci tocca da vicino, meglio ammetterlo subito: ogni fine settimana facciamo il tifo dagli spalti durante la partita di calcio del campionato Allievi C del nostro 11enne Enea che gioca nella Campionese. Sappiamo di essere in buona compagnia: che sia da una tribuna di un campo di football o di pallavolo, a bordo di una piscina o di una pista di atletica, in una palestra di ginnastica o in una di judo, molti di noi il sabato sono coinvolti nell’attività sportiva agonistica dei figli. Così a Il caffè dei genitori, consumato nella buvette tra la fine del primo tempo e l’inizio del secondo di San Bernardo-Campionese, cerchiamo risposte a una domanda sociologica: è vero che i ragazzi di oggi non hanno il culto della performance sportiva, non sono ossessionati dalla paura di fallire, non gareggiano per soddisfare aspettative altrui? Il tarlo sulla questione ce lo trasciniamo dalle Olimpiadi della scorsa estate: davanti alla mancata disperazione ai microfoni tv dei giovani atleti arrivati quarti nelle rispettive gare olimpiche più d’un (incauto) commentatore s’è spinto nel sostenere che per loro alla fine l’importante non fosse vincere ma partecipare. In questo senso i Gen Z incarnerebbero meglio di ogni altra generazione – è la conclusione degli osservatori più presente sui social – lo spirito del padre delle Olimpiadi moderne Pierre De Coubertin, che però in realtà a Londra nel 1908 aveva detto un’altra cosa: «L’important dans la vie n’est point le trionphe mais le combat; l’essentiel, ce n’est pas d’avoir vaincu, mais de s’etre bien battu» (tradotto: «L’importante nella vita non è il trionfo, ma il combattimento. L’importante non è aver vinto, ma aver lottato bene»). I termini della sua frase sono stati poi nel corso degli anni maldestramente abbreviati nel motto: «L’importante non è vincere, ma partecipare». Che rischia adesso di diventare il marchio di fabbrica di una generazione.

Insomma, ci interroghiamo a Il caffè dei genitori, qual è l’atteggiamento con cui i nostri figli scendono in campo, in pista, in vasca? La consapevolezza è che sarà verosimilmente lo stesso con cui oggi affrontano anche la vita scolastica e con cui un domani faranno da adulti i conti davanti alle sfide personali e professionali. Saranno capaci di non crollare alla prima difficoltà? Ne parliamo con l’educatore Giuseppe Palumbo, 31 anni, mister dell’Under 12 femminile del Lugano Calcio e responsabile tecnico della Campionese. «Quello che è importante per i ragazzi – spiega Palumbo ad Azione – è essere educati a cercare la vittoria che vuol dire impegno, sacrificio, desiderio di migliorare, voglia di dare il massimo di se stessi. Non bisogna invece farli focalizzare sul risultato: mentre la forza, la tenacia e la determinazione che ci mettono per vincere una gara dipendono da noi stessi, il risultato prescinde dalla volontà di ciascuno perché tiene per forza conto anche della prestazione dell’avversario che può essere semplicemente più bravo». Essere capaci di andare alla ricerca della vittoria – è il mood migliore – senza che la vittoria diventi il punto di arrivo e di giudizio: «Chi riesce a metabolizzare questo atteggiamento è capace anche di reagire davanti all’insuccesso, mentre se l’obiettivo è solo il risultato finale ogni sconfitta diventa un fardello insormontabile».

Pensiamo a Santiago, il pescatore de Il vecchio e il mare di Ernest Hemingway, che da 84 giorni non riesce a prendere neanche un pesce: finalmente cattura un gigantesco marlin, che trascina la sua barca per due giorni e tre notti, finché il pescatore non riesce a ucciderlo e a trascinarlo a riva. Nel tragitto per tornare al porto, però, la preda viene divorata dai pescecani. Se consideriamo solo il risultato finale il vecchio è uno sconfitto perché dopo avere combattuto si ritrova solo con lo scheletro del pesce. Se guardiamo invece alla sua lotta con il pesce ecco che emerge tutta la grandezza del vecchio, l’affermazione del suo orgoglio e del suo coraggio. «Nello sport come nella vita quel che conta è la determinazione – ribadisce Palumbo –. Essere abituati a lottare. La vittoria e la sconfitta, invece, non dipendono solo da noi». Se la prestazione sportiva non viene valutata sulla base del risultato finale, è più facile poi cercare di capire, se ci sono, le lacune che hanno impedito di arrivare alla vittoria. «Il percorso – ribadisce Palumbo – deve essere a ritroso: cosa ci manca per fare meglio?».

Alla luce di queste considerazioni rileggiamo il commento del nuotatore ticinese Noè Ponti, 23 anni, alla medaglia di bronzo sfumata per un solo decimo di secondo alle Olimpiadi: «Dal punto di vista sportivo posso essere soddisfatto: il quarto posto nei 100 farfalla non rappresenta a pieno il risultato che volevo e per cui ho lavorato, ma sono comunque orgoglioso di essere il quarto più veloce alle Olimpiadi (….). Il viaggio non finisce qui e lavorerò ancora più duramente per raggiungere i miei obiettivi e realizzare i miei sogni». Lo scorso ottobre ecco che Noè Ponti a Shanghai mette la firma sul record del mondo e settimana scorsa ai Mondiali in vasca corta di Budapest, ha conquistato la medaglia d’oro nei 50 metri delfino migliorando il suo primato. Vale lo stesso per la nuotatrice Benedetta Pilato, 19 anni, che dopo il quarto posto nella finale dei 100 rana di Parigi 2024, nelle sue dichiarazioni post gara afferma: «È il giorno più bello della mia vita». Il motivo? «Un anno fa non ero neanche in grado di farla questa gara – spiega –, ai Mondiali non ho partecipato ai 100, a Tokyo tre anni fa mi hanno squalificata (…). E devo dire che ho tirato fuori le palle ….».

Allora, ci viene da dire a Il caffè dei genitori, forse questi Gen Z non rappresentano la generazione a cui non importa vincere, ma piuttosto la generazione che – come ben sottolinea il mister Palumbo – sta capendo che bisogna puntare alla vittoria senza fare del risultato finale il fine ultimo. In questo senso, probabilmente, gli Gen Z sono più maturi di noi che alla fine di una partita troppo spesso siamo concentrati solo su: «Hai vinto? Hai fatto gol?». Ancora Palumbo: «Sarebbe decisamente meglio chiedere: “Sei soddisfatto dei tiri che hai fatto? Ti sei divertito? Potevi usare meglio il piede sinistro?”».

Dopo un torneo in cui la squadra è arrivata quarta, Palumbo scrive un messaggio nella chat che vale la pena di essere riportato: «Al di là del quarto posto meritato sono molto contento e orgoglioso per i ragazzi per aver vinto il premio fair play. Rispettare le regole, gli arbitri e gli avversari, essere onesti e giocare con grinta, senza voglia o interesse nel far del male è la base di quello che vogliamo creare. Ritengo che sia la base della vita più che del calcio e ottenere un riconoscimento per questo ci aiuta in questo percorso. Oggi abbiamo imparato che, seppur non è sempre valido nella società di oggi, comportarsi in un certo modo porta a dei risultati, magari non evidenti nel breve periodo, ma lo ritengo fondamentale per la crescita dei ragazzi che saranno gli uomini del futuro. Riuscire a trasmettere ed insegnare valori è per me la più grande vittoria».

Non è buonismo né arrendevolezza, ci diciamo a Il caffè del genitori, ma la consapevolezza che più che puntare ad avere bambini che in futuro diventino calciatori professionisti sarebbe meglio puntare ad avere bambini che diventino uomini e donne professionisti. Capaci di comportarsi nella vita. Fatta anche di sconfitte. E, allora, come dice il mister, quel che conta non è né vincere né partecipare. Ma MIGLIORARE!

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