Dopo aver studiato animazione nella prestigiosa scuola Gobelins a Parigi, il sangallese Simon Otto ha lavorato per 21 anni presso la DreamWorks, dove si è distinto soprattutto come supervisore dell’animazione per la trilogia di Dragon Trainer (2010-2019). Oggi lavora come regista freelance e ha completato il suo primo lungometraggio, That Christmas, dal 4 dicembre su Netflix.
L’abbiamo incontrato al Festival di Annecy, quando ha presentato le prime sequenze a giornalisti e studenti insieme allo sceneggiatore Richard Curtis, celebre autore dei copioni di Notting Hill e Love Actually.
Perché questo progetto in particolare come primo lungometraggio? Cosa le suggeriscono le parole «Richard Curtis» e «Natale»?
È proprio quello il motivo principale. Ma devo dire che è stato tutto abbastanza miracoloso, una serie di fortunate coincidenze: ho iniziato a parlare con Locksmith Animation, lo studio che ha prodotto il film, proprio quando stavano discutendo con Richard della possibilità di adattare i suoi libri per l’infanzia.
Quando mi hanno presentato il progetto ho visto che non era la classica idea per un film d’animazione: di solito c’è un protagonista singolo, il viaggio dell’eroe, in un contesto spesso fantastico; questo è un film corale, con storie che si intrecciano, e parla di persone reali in una città reale. Mi interessava lavorare su questo aspetto, e si dà il caso che io sia anche un grande fan dei film di Richard.
Com’è stato, da svizzero, lavorare a un progetto di stampo molto anglosassone?
Interessante sul piano collaborativo, perché i vari membri del team vengono da Paesi e culture diverse, e quindi c’era un autentico scambio sulle rispettive usanze natalizie. Anche una cosa apparentemente banale come l’apertura dei regali, a seconda dei casi avviene in giorni diversi. Per alcune scene in particolare era utile avere una consulenza su come fanno le cose in Inghilterra.
Nel cast vocale in inglese c’è anche Bill Nighy, che è uno degli attori-feticcio di Curtis. Era previsto dall’inizio?
No, il personaggio non era scritto per lui, ma ci sembrava giusto perché è appunto uno dei collaboratori ricorrenti di Richard. Tra l’altro avevo già avuto modo di animare delle sequenze con la sua voce, perché lui era nel cast di Giù per il tubo quando lavoravo per la DreamWorks.
Ci sono anche altri attori con cui Richard ha lavorato, come Rhys Darby. Era logico averli nel film.
Com’è nata l’idea di affidare il ruolo di Babbo Natale a Brian Cox? È molto diverso dai personaggi che lui interpreta di solito.
È il classico Babbo Natale che porta i doni, ma volevamo anche che avesse un che di leggermente più duro, fa questo lavoro da 50-60 anni ed è un lavoro molto manuale. Ha un po’ l’atteggiamento di uno che lavora in un cantiere, e Brian riesce a trasmettere tutto ciò. Inoltre, fa ridere e, come narratore, è in grado di recitare la stessa battuta in cinque modi diversi se gli chiedi un ciak in più. È stato strepitoso lavorare con lui.
Ci sono diversi elementi associati al cinema di Richard Curtis, al punto che nel Regno Unito il suo nome è quasi diventato un aggettivo per descrivere certe situazioni comiche. In That Christmas c’è un Bernard?
Non ho presente che cosa sia.
Nei film scritti da Curtis c’è quasi sempre un personaggio secondario non molto simpatico di nome Bernard. Pare che il nome derivi da un uomo con cui l’allora compagna di Curtis lo tradì.
Ah sì, avevo letto di questa cosa. Personaggi poco simpatici ne abbiamo, ma nessuno di nome Bernard. Ma ci sono altre cose, tra cui un rimando ironico a Love Actually che non era in sceneggiatura, Richard l’ha scoperto vedendo la sequenza in questione.
Come l’ha presa?
L’ha trovato divertente, è consapevole di come i suoi film siano entrati nell’immaginario collettivo ed è il primo a scherzarci sopra.
Dato il tema, domanda inevitabile: quali sono i suoi film natalizi preferiti?
Ho sempre avuto un debole per Il canto di Natale di Topolino, che è meraviglioso, e, tra le animazioni recenti, Klaus. Sono un grande fan di Elf. E poi mi piace veramente tanto Love Actually. Non è invecchiato benissimo sotto certi aspetti, e Richard è il primo ad ammetterlo, ma fa comunque molto ridere. E c’è quel dibattito su Trappola di cristallo con Bruce Willis, se sia un film di Natale o meno. Per me lo è, ed è fenomenale.
Andando un po’ a ritroso, lei ha lavorato per la DreamWorks per 21 anni, occupandosi di animazione tradizionale e digitale. Cos’ha imparato da quella transizione?
La lezione più importante è stata questa: essere aperti alle opportunità. Quando studiavo a Parigi c’erano dei rappresentanti di uno studio, allora neonato, che si chiamava Pixar, e stavano reclutando animatori per un film intitolato Toy Story. All’epoca non presi nemmeno in considerazione l’idea, perché l’animazione al computer non mi interessava affatto. Col senno di poi non dico di aver sbagliato a rifiutare quella proposta, ma fu sicuramente un errore avere la mentalità completamente chiusa.
Ha un ricordo a cui è particolarmente legato di quel periodo?
Vengo da un paesino di montagna in Svizzera, e ho sempre voluto disegnare, da bambino amavo i film della Disney, e i fumetti di Tintin e Astérix. Ma all’epoca dire che volevi fare l’animatore era un po’ come dire che volevi fare l’astronauta, in Svizzera non era contemplato. Quindi entrare nella scuola a Parigi, e poi essere uno dei tre studenti del mio anno scelti per lavorare alla DreamWorks, fu un sogno che si avvera. I primi anni a Los Angeles sono stati un’esperienza surreale, magica. Cioè, ero pagato per lavorare su dei progetti che sarebbero stati visti dal pubblico su scala globale.
Amo il mio mestiere, oggi come allora, e spero che That Christmas arrivi al pubblico come l’ha fatto Dragon Trainer, per esempio.
Lei vive a Los Angeles, ma mantiene un legame con la Svizzera tramite i corsi d’animazione alla Hochschule Luzern. Com’è nata quell’iniziativa?
Era per dare agli aspiranti animatori di oggi l’opportunità che io non avevo. La cosa più gratificante quando vengo al Festival di Annecy è incontrare giovani che dicono di essersi iscritti alla scuola perché hanno cercato il mio nome su Google e visto che ne parlavo in un’intervista. Quando avevo la loro età non c’era modo di andare in rete e cercare informazioni sugli animatori. E due ex-allievi della scuola, Ramón Arango e Heidi Marburger, sono tra i responsabili dell’animazione per il mio film.
Avendo fatto il suo film per Netflix, com’è cambiata la fruizione delle opere audiovisive?
Il mio amore per l’animazione è nato nell’infanzia, quando mia madre mi portava con sé a Zurigo per degli appuntamenti lavorativi, e come ricompensa per averla aspettata in macchina per tre quarti d’ora mi portava al cinema Bellevue, che proiettava film Disney tutto l’anno. Se propongono Lawrence d’Arabia in sala, ci vado ogni volta perché è il tipo di spettacolo che non puoi replicare su uno schermo televisivo. Grazie a Dragon Trainer sono diventato membro dell’Academy, e partecipavo ai comitati che visionavano i film proposti dai vari Paesi per la categoria internazionale. Era bellissimo stare seduto nella sala oscura ed entrare in un mondo di cui non sapevo niente, ci dicevano solo il Paese d’origine e il titolo del film.
Non mi dispiace la visione domestica, ma la sala rimane imbattibile. Anche per That Christmas, che è stato fatto per Netflix, ci saranno possibilità di vederlo al cinema. Il cinefilo in me non smetterà mai di amare il grande schermo, anche perché cosa c’è di meglio che vedere una commedia con altre 150 persone?