In una calda sera dell’agosto del 1933 un’automobile con a bordo sei persone, dopo aver divelto il parapetto del lungolago nei pressi del porto di Ascona, andò a schiantarsi sulla battigia sottostante. Secondo quanto riportato con tono divertito nelle pagine di cronaca di un quotidiano ticinese dell’epoca, a parte il guidatore, che riscontrò alcune lesioni, gli altri membri dell’allegra e probabilmente un po’ alticcia brigata, «non si ebbero, per buona fortuna che un improvviso bagno… in automobile». In realtà, per uno di loro, l’artista Johannes Robert Schürch, le emorragie interne riportate in quell’occasione avrebbero avuto conseguenze drammatiche otto anni dopo, quando sommandosi alla tubercolosi, lo avrebbero portato alla morte, appena quarantaseienne.
In Ticino Schürch era arrivato nel 1922 assieme alla madre, quando i due avevano affittato un piccolo chalet in mezzo al bosco ai Monti: al piano terra la cucina, che fungeva anche da soggiorno e camera della madre, al piano superiore l’atelier dell’artista dotato di una piccola loggia. Chiuso in questo minuscolo microcosmo, Schürch trascorse un intero decennio senza vedere quasi nessuno e in una condizione di tale povertà che rasentava la miseria. Costretta nella rigida disciplina di quell’isolamento, la sua sensibilità estrema si tradusse in una maniacale e ossessiva produzione artistica che compone oggi un insieme di oltre settemila opere (ma molte sono andate distrutte nel corso del tempo) in gran parte disegni a china e acquerelli, oltre a dipinti ad olio, pastelli e incisioni.
Più dei dipinti a olio, nei quali Schürch appare sempre un po’ impacciato, sono proprio i disegni e gli acquerelli realizzati nel corso di questo decennio a costituire il suo lascito principale, che ne fa una delle figure di spicco dell’arte svizzera tra le due guerre. Venata dal pessimismo e da un senso tragico della condizione umana, l’opera di Schürch mette in scena, senza nessun timore di deludere le aspettative del pubblico o dei potenziali acquirenti, un mondo dominato dalla solitudine e dalla disperazione nel quale la morte è una figura ricorrente.
D’altronde, la morte Schürch l’aveva conosciuta presto e da vicino: prima il padre, colpito da un infarto quando lui aveva solo dodici anni, poi, nel volgere di pochi mesi, le due sorelle portate via dalla tubercolosi. Anche a Ginevra, dove si era trasferito nel 1916 per studiare con Ferdinand Hodler, si era trovato dopo solo due anni a ritrarre sul suo letto di morte colui che era unanimemente riconosciuto come il fondatore della nuova arte svizzera. Dopo un breve soggiorno a Firenze per copiare i grandi maestri dell’arte rinascimentale, nel tentativo di sfuggire al mondo e alle sue continue distrazioni, era approdato, un po’ casualmente, in Ticino.
Convinto che solo l’isolamento totale gli avrebbe permesso di concentrarsi sulla sua arte, Schürch, che aveva indubbiamente una grande consapevolezza del proprio talento, cercava in questo modo di mettere in atto quel «trionfo della forza di volontà» che l’aveva così colpito leggendo il libro di Orison Swett Marden, teorico del pensiero motivazionale che allora andava molto di moda. A letture come questa e al suo interesse per l’astrologia, che oggi possono apparire singolari, Schürch, affiancava però anche la profonda conoscenza di autori quali Dostoevskij, Nietzsche, Baudelaire, Marco Aurelio, Rilke, Goethe, Balzac, Zola. Soprattutto, Schürch aveva guardato molto. Non tanto dal vivo, ma attraverso le illustrazioni presenti nei libri, aveva studiato Goya, Daumier, Rodin, Picasso, Rops, Rembrandt, Cézanne, Hodler, Van Gogh, Kubin e molti altri.
Come già la critica contemporanea aveva notato, Schürch, pur avendo vissuto per 20 anni in Ticino, nelle sue opere non ha mai mostrato alcun interesse per la sua realtà sociale, divisa tra la mondanità del turismo internazionale e le sopravvivenze di un mondo agricolo-pastorale. Il suo mondo fatto di prostitute, operai, mendicanti, artisti circensi, era un mondo che apparteneva alle grandi città, un mondo che in parte si basava sui ricordi, ma che in larga parte era intessuto di riferimenti letterari e artistici, un mondo immaginato, fantastico, visionario. Un mondo che per essere tenuto in vita aveva bisogno di isolamento e di un grande dispendio di energia psichica.
Nei primi anni Trenta, quando non ce la fece più, Schürch, abbandonata la madre, scese dai Monti e iniziò a frequentare la bohème ad Ascona. Apertosi al mondo conobbe finalmente l’amore grazie a Erica Ebinger-Leutwyler che diventò la vestale della sua opera e che lo accudì fino all’ultimo, quando, era il 14 maggio 1941, il pavimento della sua camera si macchiò di un ultimo sputo insanguinato.