La scritta che accoglie visitatrici e visitatori, "Non sei solo"

All’ombra dello sfarzo, un’umanità sommersa

by Claudia

Avere poco, o niente, a Natale è più difficile che in altri momenti dell’anno. Avere poco, o niente, a Natale, è ancora più difficile in una città come Zurigo, puntualmente in cima alle classifiche quando viene stilato il ranking delle località più ricche e in cui si vive meglio.

Prendendo il tram numero 13 dalla Stazione Centrale per risalire la Bahnhofstrasse, in questi giorni impegnata a dare il meglio di sé con tutto lo sfarzo che si confà a una città che, oltre al Politecnico, all’Università, a un ospedale universitario, a musei e parchi, vanta anche una concentrazione di boutique e di lusso come se ne vedono solo in certi quartieri delle grandi metropoli, basta andare fino al capolinea per capire che di realtà, ce n’è anche un’altra.

Sicuramente più sommerso, invisibile agli occhi dei turisti, dei manager di caratura mondiale e dei guru digitali (la sede europea di Google è a due passi dalla Stazione Centrale), c’è un mondo in constante espansione, fatto di persone che subiscono la gentrificazione, l’aumento esponenziale degli affitti, o semplicemente la difficoltà del vivere in una società che va troppo velocemente. Per supportare gli abitanti di questo mondo, affinché non sprofondino nell’altrui indifferenza, e al di là dei canonici servizi sociali, vi sono una serie di fondazioni e associazioni, operanti in parte su base volontaria. Di queste fa parte anche il Sozialwerk (opera sociale) Pfarrer Sieber, rete creata dal carismatico pastore protestante-artista Ernst Sieber (1927-2018), che aveva fatto della causa degli ultimi e dell’amore per il prossimo il contenuto della propria esistenza, stimolando la riflessione nell’opinione pubblica (e forse anche qualche senso di colpa) e creando una serie di strutture sparse per la città e atte a formare un sistema di sostegno per i più deboli.

A sei anni dalla morte del pastore, sono molti i segni del suo passaggio nelle pieghe della società dove non arriva lo Stato, grazie a un’organizzazione che lavora e opera secondo il motto «auffangen, betreuen, weiterhelfen», ossia intercettare, prendersi cura e aiutare ad andare avanti. In altre parole, non lasciare a sé stesso chi, per tutta una serie di motivi (che sono poi le biografie di ognuno di noi), non ce l’ha fatta a costruire e mantenere quella rete di relazioni e affetti necessaria a una riuscita integrazione sociale. Oltre al Pfuusbus vi sono altri due dormitori, ma anche un ospedale specializzato in medicina sociale e malattie da dipendenza, degli accompagnatori spirituali attivi come street worker, un servizio veterinario per gli animali di chi ha un disagio, un caffè per persone ai margini con il desiderio di condivisione e accoglienza, un dormitorio per giovanissimi. Un’organizzazione capillare la cui forza non è solamente negli oltre 150 dipendenti (spesso a loro volta ex utenti, secondo la filosofia del pastore), ma nelle altrettante centinaia di volontari.

Al capolinea del tram numero 13, fermata Strassenverkehrsamt, a pochi passi dalla sezione della circolazione e di una delle più grandi sedi Credit Suisse della Svizzera, su uno spiazzo che ogni tanto ospita anche un Circo, si trova il Pfuusbus, laddove «pfuusen», in svizzero tedesco, significa «dormire». Il terreno appartiene alla città, che lo mette a disposizione (insieme alla corrente e ai servizi sanitari) dal mese di novembre ad aprile.

Lo striscione con la scritta «Du bisch nöd elai!» (non sei solo!), piazzato di fianco all’albero di Natale illuminato, accoglie le visitatrici e i visitatori: utenti, volontari, impiegati del Sozialwerk Sieber. La struttura di accoglienza per i senzatetto Pfuusbus è nata da un ex rimorchio di camion trasformato in dormitorio, ma il Covid e il numero in costante crescita di senzatetto, ha richiesto spazi più ampli, ed è così che sono stati aggiunti dei gazebo con i tavoli per mangiare e i letti a castello per dormire.

Un posto pulito, illuminato bene
Barbara dà un’ultima controllata ai letti, disposti su due livelli, perché tra poco arriveranno i primi ospiti: ogni materasso deve avere il proprio fagotto di coperte con il nome del destinatario scritto su un’etichetta bianca (sono gli utenti stessi a rifarlo ogni mattina, dopo avere dormito), mentre nel locale comune è già pronto un bancone con i thermos di tè e caffè e le ciotole con mandarini e barrette. Al centro dei tavoli (da festa campestre) brilla una decorazione natalizia, per offrire le piccole attenzioni che possono trasformare in un surrogato di casa anche quella che una casa non è. Accanto all’ingresso, sopra il lavandino doppio, intorno a un grande specchio, sono disposti deodoranti, spazzolini e dentifrici, mentre il portatile è pronto a registrare l’arrivo di ogni singola persona: ci si deve annunciare con nome e cognome.

Barbara, che al Pfuusbus ha cominciato come volontaria, e poi è diventata una dipendente, si sposta nel cucinino all’interno del rimorchio, dove sono già all’opera quattro volontari dipendenti di una grande multinazionale – un tedesco, un rumeno, una belga e una cinese. Preparano riso al curry, insalata e un dolce al cioccolato per oltre sessanta persone, seguendo quello che è un trend sempre più diffuso tra i dipendenti delle grandi aziende: mettersi a disposizione di associazioni attive in ambito sociale sul territorio, offrendo e cucinando pasti. Barbara prende posto sullo sgabello davanti al portatile, e registra i primi arrivati. Fuori la temperatura si avvicina allo zero, e molti sono infreddoliti.

Arrivano altri volontari, Susanna e Hans; lei lavorava per il pastore, lo conosceva bene, e quando ne parla le si illuminano gli occhi; lui, una sera alla settimana si sobbarca un’ora e mezza di viaggio per dare una mano al Pfuusbus; scaldano l’acqua e riempiono le thermos, scambiano qualche parola con chi ne ha voglia. Qualche utente porta uno zainetto, un altro un carrellino della spesa, la maggior parte di loro (sono quasi tutti uomini) possiede unicamente quello che indossa. Qualcuno è distrutto, per quella vita randagia («ora che è freddo, passo molto tempo sul tram», racconta un utente), e schiaccia un pisolino su una panca prima di cena, altri chiacchierano sommessamente. Un uomo che dice di avere due figli e di non volere diventare come suo padre, che picchiava la madre, con un tratto felice disegna un Babbo Natale mentre racconta di come attenda di vedersi assegnato un monolocale in una struttura psichiatrica; il giovane ragazzo di fronte a lui, che ha dovuto consegnare la bottiglia di vodka alla pesca a uno dei volontari (all’interno del Pfuusbus non si beve e non ci si droga), colora la scritta «Echti Gfüül», «sentimenti veri», senza alzare gli occhi dal foglio.

Nel frattempo, per trascorrere la notte qui e chiamare polizia o ambulanza in caso di bisogno, è arrivato Samuel. Racconta di avere avuto una chiamata religioso-spirituale, in seguito alla quale ha cominciato a dedicarsi a chi è più bisognoso, nonostante gli innegabili rischi legati a un’utenza tanto eterogenea. Fra i presenti, infatti, vi sono tossicodipendenti e persone con mental issues, persone che non parlano il tedesco, ma anche chi, all’improvviso, si è ritrovato senza lavoro, senza una famiglia e senza una casa («qualcuno fortunatamente viene qui solo per un tempo determinato», racconta Barbara). Un uomo e una donna magrissimi hanno unito due letti e innalzato dei teli di plastica a mo’ di tenda, per ottenere una privacy aleatoria; ora, mentre fumano saltellando da un piede all’altro, tremano entrambi per il freddo e cercano di scaldarsi a vicenda, «in questo periodo ho sempre freddo», dice lei, come a scusarsi.

La cena è pronta, e ci si mette in fila, piatto alla mano, per farsi servire dai volontari della multinazionale. Qui si può mangiare fino alle dieci, ma i primi si sono già ritirati, e qualcuno, dopo il pasto caldo e gli arti finalmente tiepidi, dorme. Arrivano due nuovi volontari, Heidi e Roger, lei, energica, fa questo lavoro da tempo, mentre lui, di professione cuoco, alla seconda esperienza nella cosiddetta Kältepatrouille (pattuglia del freddo), ha l’aria quasi emozionata. Riempiono il baule di un’auto di thermos e panini, e si preparano. Andranno in città, alla ricerca di chi non si è presentato o semplicemente non ci è riuscito, rimanendo all’addiaccio. «Si cammina molto», racconta Heidi, «ma io all’aperto mi sento più sicura: all’aperto si può sempre scappare. Inoltre possiamo chiamare la polizia schiacciando questo bottone». Le notti al Pfuusbus possono non essere facili, ce lo conferma anche Samuel: qualcuno soffre di psicosi, possono nascere tensioni e incomprensioni, ma può essere anche una serata tranquilla, come questa.

Domani sarà un altro giorno, appena svegli occorre preparare il fagotto, e dopo la colazione, entro le nove, si deve lasciare il Pfuusbus. Fuori almeno non piove, ma sarà comunque un’altra giornata all’insegna dell’incertezza, e forse soprattutto dell’indifferenza da parte degli altri. «Gli unici che parlano con me sono i bambini, perché vogliono sapere cosa faccio magari seduto per terra, o vestito così male. Gli adulti mi ignorano, ma per me è bellissimo potere parlare con persone adulte, e qui ci riesco», confessa Felipe, mentre con la sua andatura dondolante si avvia verso la fermata del bus.

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