(Keystone)

«Ho tolto il velo e deciso di protestare per tutti»

by Claudia

«So, lo so con certezza che un giorno mi uccideranno». Chi parla, senza paura e senza commozione apparente, è una donna di trentuno anni appena. Una giovane donna dal viso scarno incorniciato dai capelli neri e da uno scialle scuro che le copre appena il capo. Mahrang Baloch (nella foto a lato), dottoressa in medicina e attivista per i diritti umani, è diventata suo malgrado un simbolo della resistenza del suo popolo, tanto da essere inserita qualche settimana fa dalla BBC tra le 100 donne di maggiore ispirazione per l’anno che sta per finire.

La storia comincia da lontano, in realtà, dalla lotta costante dei beluci contro lo Stato pakistano che ne ha illegalmente occupato la terra per trasformare gli abitanti in cittadini di serie B, senza diritti e senza futuro. La storia, per Mahrang, comincia nel 2006, quando suo padre scompare dall’oggi al domani. Dopo anni di richieste, di preghiere e di proteste, il suo corpo viene infine ritrovato nel 2011, gettato come immondizia sul ciglio di una strada. Nel 2017 a scomparire è suo fratello. «È stato il momento in cui ho deciso di protestare per tutti», dichiara Mahrang. «Mi sono tolta il velo e ho mostrato il mio volto. Abbiamo iniziato una mobilitazione di massa nelle scuole», continua la giovane donna. «E siamo andati di porta in porta per fornire ai giovani, soprattutto alle giovani donne, un’educazione politica». Nel 2019 Mahrang fonda la Baloch yakjehti committee, un movimento per i diritti umani che lotta contro gli abusi dello Stato pakistano. E il 23 novembre del 2023, insieme a migliaia di altre donne, si mette in viaggio verso Islamabad alla testa di madri, figlie, sorelle e mogli delle migliaia di persone che ogni anno scompaiono nella regione, a opera dell’esercito e delle cosiddette Death squads, le squadre della morte, a cui lo Stato ha appaltato prigioni private e celle di tortura.

Con i bambini al seguito, molte con i piccoli in braccio, Mahrang e le altre si mettono a camminare come prima di loro hanno fatto le madri della Plaza de Mayo: sperando che il mondo si accorga di ciò che sta succedendo. Perché in Belucistan, regione illegalmente occupata dal Pakistan nel 1948, da molti, troppi anni è in corso un genocidio culturale e fisico: una vera e propria e propria pulizia etnica che il Pakistan conduce ormai su larga scala tra l’indifferenza e il silenzio del resto del mondo.

Ogni anno scompaiono migliaia di persone: prese dall’esercito, dalle forze dell’ordine o dalle Death squads e mai più riviste. A volte riappaiono, uccise e gettate ai bordi delle strade con addosso segni di tortura. O nelle fosse comuni, scoperte per caso e immediatamente occultate dallo Stato. Oppure anche, prive di organi, gettate come rifiuti sui tetti degli ospedali. Sono intellettuali, attivisti dei diritti umani, politici dissidenti, studenti, giornalisti, professori. Sono giovani, anziani, donne e anche bambini: colpevoli soltanto di essere figli o fratelli di un dissidente ma, soprattutto, di essere beluci.

«Per me l’aspetto più progressista della nostra resistenza è che migliaia di donne di tutte le generazioni, dalle giovani adolescenti alle loro madri e zie, alle loro nonne e persino bisnonne, si sono unite alla causa», continua Mahrang. Non è la prima volta che i beluci marciano per protestare, ma è la prima volta che sono le donne ad essere il motore della rivolta. Perché sono centinaia i casi di donne rapite, detenute e torturate, usate come schiave sessuali dai militari e poi gettate via vive o più spesso morte. Ragazze e donne, come da copione, vengono accolte a Islamabad a colpi di bastone e di lacrimogeni, a colpi di idrante in pieno inverno: e, dopo quasi un mese, vengono sgombrate di forza. Ma Mahrang non si arrende, come non si arrendono le altre. E in luglio organizza un grande raduno a Gwadar: centinaia di migliaia accorrono da tutto il Belucistan. Questa volta lo Stato manda due killer ad assassinare la ragazza. Che però, a questo punto, è già diventata una leggenda e viene strenuamente protetta dai suoi connazionali. Mentre sui social media circola una registrazione audio del vice commissario di Gwadar, in cui lo si sente minacciare di morte Mahrang, e altri leader e organizzatori della protesta, la giovane donna viene invitata da diverse organizzazioni internazionali. E qualche mese fa la rivista «Time» la inserisce nella sua lista di giovani leader e la invita al gala di premiazione a New York.

Le autorità pakistane le impediscono però di lasciare il Paese e le sequestrano il passaporto. Non solo: lei e Sammi, un’altra attivista, vengono abbandonate in piena notte su una superstrada senza telefono, senza documenti e senza denaro. Ma per il Pakistan non è abbastanza: un illustre sconosciuto da una altrettanto sconosciuta cittadina denuncia Mahrang per terrorismo e «incitazione alla rivolta». La sua reputazione viene fatta a pezzi dai troll al soldo dell’esercito. La relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla situazione di chi difende i diritti umani, Mary Lawlor, ha espresso «profonda preoccupazione per l’accaduto» citando notizie di «molestie, intimidazioni e maltrattamenti». Per il momento Mahrang è ancora libera, protetta dalla sua fama internazionale e dall’attenzione più o meno costante della stampa estera. Ma non si sa per quanto. Perché un giorno, vicino o lontano, qualcuno la ucciderà. Perché il Belucistan è lo scheletro nell’armadiodel Pakistan, un armadio già zeppo di scheletri ingombranti. Un armadio protetto da una coltre di silenzio densa come una cortina d’acciaio. Un silenzio che il mondo dovrebbe ascoltare prima che sia troppo tardi, e che del Belucistan, e di Mahrang e le altre, rimanga soltanto il ricordo.

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