Da Kamala Harris a Gisèle Pelicot, passando per tante altre che hanno avuto il coraggio di far sentire la loro voce
E se quello che sta per finire fosse ricordato come l’anno della «grande frenata»? Quello in cui tutto l’entusiasmo nella marcia verso la parità di genere si è raffreddato, se non congelato? Il 2024, da un punto di vista politico, è stato segnato da una sconfitta particolarmente dolorosa per la causa femminile. Non solo Kamala Harris non è arrivata alla Casa Bianca, ma gli americani, e anche le americane sopra i 45 anni, non si sono fatti problemi a farci ritornare un Donald Trump circondato da un gruppo di potere che di ogni istanza legata ai diritti delle donne si è fatto apertamente beffa. E pazienza se le paure legate all’economia e alla globalizzazione sono forse state le ragioni profonde del suo successo: con lui torna in auge un certo tipo di mascolinità abrasiva, il prototipo dell’uomo alfa abituato a comandare e pretendere dalle donne un ruolo funzionale e subordinato, a proteggerle «che lo vogliano o no», come ha spiegato in una delle sue tante dichiarazioni provocatorie. Con delle eccezioni notevoli, come ce ne sono state a volte nella storia, a partire dalla ministra della Giustizia Pam Bondi, ex procuratrice capo della Florida, antiabortista e sua fedelissima da anni, oppure Susie Wiles, la prima chief of staff della storia americana. Ma una rondine, si sa, non fa proprio primavera.
Ma un po’ ovunque si è visto il ritorno del potere maschile, come se l’esigenza di essere attenti agli equilibri non fosse più così forte. La gloriosa università di Oxford, attraversata come tutti gli atenei anglosassoni da potenti spinte verso le pari opportunità e da un’ossessione verso il politicamente corretto, alla fine di una lunga campagna per scegliere un ruolo prestigiosissimo come quello del cancelliere, davanti a candidature di donne eccezionali come la baronessa Royall o la giurista Elish Angiolini, ha scelto seraficamente un uomo, William Hague, ex leader dei conservatori, aperto e intelligente, certo, ma con un profilo che sembra uscito da un voto di 60 anni fa. Gli elettori sono stati 24mila – su 350mila aventi diritto – e lui ha superato di 1600 voti Angiolini, a riprova di un certo disimpegno, di un calo di slancio militante. O forse di una piccola reazione rispetto alla tendenza degli ultimi anni. Se il maschio bianco etero sessantacinquenne a un certo punto sembrava arrivato alla fine della sua millenaria era di gloria, ultimamente sta vivendo una stagione di grande spolvero.
Certo, nel frattempo Giorgia Meloni continua a dominare una scena politica in cui, comunque la si pensi sull’importanza del suo essere la prima premier donna in Italia, giganteggia rispetto ai suoi compagni di Governo e anche Elly Schlein ha consolidato il suo ruolo alla guida del PD. Ursula von der Leyen nonostante tutto è rimasta leader della Commissione Ue e questi sono tutti elementi positivi, nell’ottica «modelli per le bambine del futuro». Poi c’è il caso della nuova leader dei Tories, la quarantaquattrenne di origine nigeriana Kemi Badenoch, nata nel Regno Unito, cresciuta tra Lagos e gli Stati Uniti e poi tornata a Londra per una carriera tra la banca della Royal Family, Coutts, e il magazine conservatore «The Spectator».
Madre di due figli, da una parte rivendica la centralità dei padri nell’educazione dei bambini in modo assertivo e senza nessuna tentazione di mostrarsi come una donna tradizionale, dimostrando che sono lontani gli anni in cui Maggie Thatcher doveva anche sforzarsi di essere una buona donna di casa, dall’altra dice che il sussidio di maternità è eccessivo e rifiuta di essere associata sia alle classiche battaglie femministe che a quelle antirazziste. La sua presenza sta facendo sentire il partito, drammaticamente a corto d’idee, molto moderno ed evoluto almeno su un punto: è guidato da una donna ed è tutt’altro che una «quota rosa». Il premier Keir Starmer, laburista, si è invece circondato di due figure forti, ossia la cancelliera Rachel Reeves e la vicepremier Angela Rayner, nata in una casa popolare del nord del Paese, ragazza madre a 16 anni e ormai politica di lungo corso dopo una fulminante carriera nei sindacati. Ma una leader laburista per ora ancora non s’è mai vista, mentre i Tories ne contano già tre.
Altre due politiche si sono distinte a livello internazionale: Maia Sandu, economista e presidente della Moldavia dal 2020, fresca di rielezione e determinata a portare il suo piccolo Paese più vicino possibile all’Unione europea per sfuggire alle influenze moscovite, e Claudia Sheinbaum in Messico, rieletta in continuità con il potentissimo Andrés Manuel López Obrador e non priva di un penchant per le misure populiste e dal retrogusto illiberale del suo predecessore. Ma con Marine Le Pen che ormai in Francia è una potenza indiscutibile da anni, anche se ha dovuto affiancarsi il più carismatico e giovane Jordan Bardella, forse gli avanzamenti di potere femminile vanno letti attraverso altri indicatori che non siano la mera rappresentanza politica. Solo che anche quelli non sono esaltanti: perfino il World Economic Forum parla di un anno in cui il progresso sta rallentando, anche se – nota – la partecipazione femminile al mercato del lavoro è salita un po’ ovunque. Nel 2024, in particolare, il punteggio globale del divario di genere si attesta al 68,5%, con un miglioramento di soli 0,1 punti percentuali rispetto all’anno precedente (Global Gender Gap Report). A questo ritmo, si stima che ci vorranno 134 anni per raggiungere la piena parità di genere a livello globale, più di 5 generazioni di persone.
Anche la violenza nei confronti delle donne ormai è un allarme costante, globale: in Italia a novembre si contavano oltre 100 femminicidi e, di certo, il fatto che nel Paese l’occupazione femminile sia bassa e la dipendenza economica dagli uomini ancora troppo forte continua ad essere un fattore di rischio difficile da rimuovere nell’immediato. Per quello che riguarda la Svizzera – dice l’Ufficio federale di statistica – nel 2023 si sono registrati 19’918 reati di violenza domestica (le vittime sono in più del 70% dei casi persone di sesso femminile). Gli omicidi commessi nella sfera domestica sono stati 25 (20 donne o bambine). I processi nei confronti dei colpevoli hanno sempre più attenzione mediatica e – per fortuna – la sensibilizzazione è sicuramente superiore rispetto al passato, e va oltre la condanna formale del gesto omicida. È l’intera dinamica della violenza a essere ormai sotto osservazione, e questo lo dobbiamo anche a un enorme cambiamento nel modo di raccontarla. Uno tra i libri più belli – ha ricevuto il Pulitzer quest’anno (memoria e autobiografia) – ripercorre un femminicidio avvenuto in Messico oltre trent’anni fa: si intitola L’invicibile estate di Liliana. Lo ha scritto Cristina Rivera Garza, la sorella della vittima, ed è uno di quei libri che trasformano per sempre chi lo ha letto.
Se il nostro sguardo sta cambiando bisogna essere anche grati a due donne che nel 2024 hanno fatto tantissimo perché le vittime di violenza possano smettere di provare i sentimenti che da sempre la nostra cultura impone a chi subisce un abuso. La scrittrice Neige Sinno, che in Triste Tigre ha raccontato la sua storia di bambina vittima di indicibili violenze da parte del patrigno, e l’eroica Gisèle Pelicot (tra le 25 donne più influenti del 2024, secondo il «Financial Times», insieme a Christine Lagarde, Yulia Navalnaya, Taylor Swift ecc.), esile signora del Sud della Francia che il marito drogava e faceva stuprare da sconosciuti, hanno avuto entrambe le parole e il coraggio di mostrare il proprio volto e di rimandare al mittente il senso di colpa. «Sono loro a doversi vergognare, non noi», ha spiegato Pelicot. E il mondo è stato a sentirla. Mentre giovedì scorso il suo aguzzino è stato condannato a 20 anni di prigione, il massimo della pena, così come richiesto dall’accusa.