L’elogio del racconto come finzione pura

by Claudia

Letteratura: nella raccolta «La Poiana», Peter Bichsel sovverte il concetto di realtà letteraria, sfidando le convenzioni narrative con otto racconti notevoli

«Poi, dopo la lunga pausa diceva: “Gli uomini conoscono le lettere dell’alfabeto, ma hanno abusato della scrittura. Se ne servono solo come dimostrazione e prova, e ciò che è firmato deve essere tutta la verità […].»

Sebbene la bandella de La Poiana di Peter Bichsel – recentemente pubblicata in italiano da Edizioni Casagrande – la descriva come una raccolta di otto racconti sull’arte della narrazione, a ben vedere essa si rivela anche una riflessione critica sul concetto stesso di «verità narrativa». In un’epoca in cui la letteratura sembra essere dominata dal fascino per le «storie vere» – basti pensare che nella dozzina del Premio Strega 2023, tra i candidati, solo uno poteva essere considerato una vera e propria opera d’invenzione, mentre quasi tutti erano o comunque si proponevano come «storie vere» – Bichsel non solo sovverte il paradigma, ma ne denuncia i limiti con sorprendente lungimiranza, considerando che la versione originale di quest’opera fu pubblicata in tedesco la prima volta nel 1985, con il titolo Der Busant.

In questi otto racconti, infatti, emerge chiaramente l’uso della correctio, figura retorica in cui, nel nostro caso, il narratore fa affermazioni che corregge immediatamente dopo fornendo delle varianti narrative: «Un giorno lo hanno lasciato andare, Ueli era uno che si lascia andare. Comunque Ueli era uno che rimane, infatti era sempre lì. Arrivato, mai». Tale espediente rivela e, allo stesso tempo, mina, le basi del patto con il lettore, generando un effetto metanarrativo, dato dall’emergere del processo creativo che manifesta l’artificialità della narrazione stessa: «Allora, un tipo sale su un treno. Si chiama Müller, un nome semplice […]. Già che ci siamo, diciamo pure che è un assicuratore: quindi un uomo con borsa portadocumenti […] Müller è sergente Maggiore. E Müller ha delle pratiche sulle ginocchia».

Questo continuo ritrattare e riformulare non solo enfatizza la natura finzionale delle storie, ma porta in primo piano la formazione delle idee, il flusso di pensiero dell’autore mentre costruisce la narrazione. Quasi come se volesse ricordare al lettore che dietro ogni «verità» letteraria esiste sempre una macchina narrativa, un esercizio di finzione che, paradossalmente, diventa più vero proprio quando smette di pretendere di esserlo.

Che il lettore non si lasci però intimidire da queste nostre dietrologie letterarie. Peter Bichsel è uno degli autori più significativi della letteratura svizzera contemporanea e i suoi racconti, al di là di quanto a posteriori se ne possa dire, sono godibilissimi. Nondimeno, la sua scrittura si rivolge forse a un pubblico più ristretto, a chi è interessato alla letteratura sperimentale o alle sfumature delle interazioni umane, piuttosto che a coloro che cercano storie più coinvolgenti, dato che l’autore di La Poiana sembra volutamente sottrarre tensione emotiva alla narrazione. A differenza di molti scrittori che offrono una trama centrale o un conflitto chiaro tra i personaggi, nei racconti di Bichsel gli eventi sembrano passare inosservati, per quanto fondamentali possano essere per l’evoluzione del protagonista o del contesto. In un certo senso, le sue storie si concentrano più su chi guarda e vive, che sugli eventi che non accadono. Così si evinceva già dai racconti brevi della meravigliosa raccolta intitolata Il lattaio – In fondo alla signora Blum piacerebbe conoscere il lattaio, pubblicata in italiano da Giampiero Casagrande Editore nel 1989.

Eppure, anche se non è di immediato coinvolgimento, noi troviamo i suoi racconti a volte commoventi, altre perturbanti, altre ancora disorientanti, e molto divertenti, e poi non si può non apprezzarne la voce geniale.

Ma veniamo alla Poiana che inizia con Maghelona, figlia del re, e Pietro, conte di Provenza, personaggi di un’antica leggenda occitana che, nella riscrittura di Bichsel diventano Maghelona, l’ubriaca, e Ueli, il barbone di Soletta, località in cui l’autore ambienta l’operetta che dà il titolo anche alla raccolta intera.

Se prendiamo questo testo quale chiave di lettura per comprendere e analizzare il resto del contenuto, come detto, vien da sé il confronto tra «verità storica» e invenzione letteraria.

Certo, in Carriera, l’autore mostra la creazione del personaggio a partire dal suo nome, «un nome (ndr. Salomon Adalbert Meier), brutto come ogni invenzione […] Adalbert è anche intelligente, si sa, ma non basta per una biografia». A noi, però, balza agli occhi piuttosto l’incertezza con cui Bichsel cerca di caratterizzarlo, tanto che qua e là si adira persino con il proprio personaggio che va per i fatti suoi, decidendo di indossare, per esempio, un cappello che «non rientra nei miei piani, e non tollero che ti agghindi con questo e quello senza il mio esplicito permesso scritto: perché non voglio farlo vivere prima di sapere cosa ne sarà di lui. Non gli do un cappello prima di sapere che tipo di locali frequenterà». Da qui, è una goduria assistere alle varianti di quel che capita in Viaggiare in treno (forse il racconto che ci è piaciuto di più, se proprio dovessimo sceglierne uno; cosa che preferiamo non fare). In questo racconto, infatti, viene creata la relazione tra un narratore protagonista e un coprotagonista di cui lo stesso cantastorie non conosce nulla: «e Müller sarebbe sorpreso se sapesse le cose che gli capiteranno oggi, e non avrà idea che sono io a inventarle per lui». Narratore che, pur rivolgendosi di tanto in tanto anche ai lettori, gioca dunque con i suoi stessi personaggi e loro con lui: «Così fu Django che con un bercio mi tirò dentro questa storia», come leggiamo in Aspettare a Baden-Baden. Ma a Bichsel non basta. Venendo il narratore trascinato nella storia, egli un poco si ribella, ma soprattutto cambia natura, trasformandosi da persona reale a personaggio: «Scrivendo io stesso queste righe, non ho ragione di rivelare della mia persona più di quanto gli altri già non sappiano. Per la prima volta mi trovavo da qualche parte senza passato, quindi non volevo nemmeno un’origine». La scrittura diventa così un «gioco» che riflette la confusione dell’esistenza, in una tensione tra il tentativo di comprendere la vita e il suo fallimento.

Ed è proprio la figura del narratore, spesso interno, a volte un po’ dentro e un po’ fuori, a volte fuori, ma non del tutto, che riesce a dar vita quasi a una serie di narrazioni dell’assurdo, stravolgendo la tradizione narratologica, con persistenti cambi di registro, ma soprattutto mettendo continuamente in crisi il principio di verosimiglianza.

Seguono poi racconti ancora più metaletterari, se vogliamo stare sull’arte della narrazione: il tema del dialogo emerge in Queste frasi, (sebbene a noi interessi di più notare come in questo racconto si intrometta un’immagine di una donna che disturba il narratore nel processo creativo); il tema della costruzione, della ricerca e dell’attenzione ai dettagli, compresa la scelta dei tempi verbali, si mostra in Grammatica di una partenza, (benché ci affascini il discorso sullo sgretolarsi della lingua: «I processi si frantumano a descriverli», e di nuovo il confronto tra realtà e invenzione narrativa: «E quello che diceva, e lo sapeva, era un gesto che generava il presente ma non corrispondeva alla verità. Perché la lingua, l’uso letterario, per la formula “viaggiare” richiede la formula “valigia”».); e infine si torna all’invenzione del personaggio in Una dichiarazione per l’apprendista di Prey: «Tu e io, caro Ingol, siamo gli unici a sapere che ho inventato questo nome per te» (e di nuovo però spicca la dichiarazione più significativa circa la pretesa di correttezza delle invenzioni: «Ora si ritrovano nelle bettole e di tutto ciò che dicono hanno le prove scritte in tasca – come se la verità si potesse raccontare. Tutt’al più, se esiste, la si potrebbe dire. Da quando non ci sono più mezze verità, la gente non è più libera. Oggi la libertà di parola vale ovunque solo per la verità»).

Bichsel ci invita così a riflettere sul significato profondo del raccontare storie, mostrando che anche nel più elaborato dei racconti inventati, il lettore trova spesso una verità più autentica di quella pretesa dalle narrazioni biografiche. Così scrisse nel saggio, il cui titolo la dice già tutta, La storia deve avvenire sulla carta (1991): «Non posso mettere su carta la realtà, ma solo quello che c’è da dire sulla realtà. […] Non descrivo il tavolo, scrivo frasi, su un tavolo. “Cosa dice la gente di un tavolo” e non “Cos’è un tavolo”».

E dunque, La Poiana non è solo un tributo all’arte del racconto, ma – anticipando i tempi di quarant’anni – anche una sottile critica all’ossessione contemporanea per la realtà/verità in letteratura.

Forse non per tutti, ma certamente per chi ama le sfide alle convenzioni narrative e per chi sa come apprezzare una narrazione che non dà risposte facili.

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