Quando il crimine si trasforma in un format

È curioso notare come, in una fase di riflusso della televisione generalista, il lievito di molte trasmissioni sia formato dai casi di cronaca nera: molti talk show sembrano smaniosi di delitti dando sempre l’impressione di essere assetati più di sensazionalismo che di giustizia. Il loro scopo è di trasformare il crimine in un format. In un’infernale spinta, in un’eterna coazione a ripetere, le trasmissioni sui delitti hanno colonizzato i palinsesti, dando vita a un lungo racconto a puntate.

Serializzare il dramma significa non soltanto riproporre in continuazione un episodio di cronaca nera particolarmente doloroso, significa anche trasformare l’angoscia in un appuntamento fisso. Non è solo un problema morale, è innanzitutto un problema linguistico. La serializzazione rischia di sganciare l’omicidio dalla realtà giudiziaria per immergerlo in un universo narrativo, con le sue regole, i suoi tempi. Come se esistessero due giustizie: quella dei tribunali, sconosciuta ai più, e quella televisiva, forte di un grande seguito.

Per esempio, il delitto di Brembate di Sopra, quello di Yara Gambirasio, è stato trasformato in un evento mediale, facendo forza su alcuni espedienti narrativi. Primo: l’incertezza sul colpevole ha permesso alle varie compagnie di giro dei talk show di arrischiare le più svariate congetture. Secondo: alla base del delitto ci sarebbero in gioco sentimenti primordiali come odio, amore, impulso, sesso. In questo grande sceneggiato, il pubblico tende a confondere il messaggero con il messaggio (la televisione funziona per storie, non per concetti astratti); gli imputati devono presto imparare come rapportarsi con i media: la tv, per sua natura, si rivolge all’opinione pubblica e sa come formarla. Siccome non esistono riprese televisive neutrali non può nemmeno esistere una formazione imparziale dell’opinione.

Lo spettacolo della sofferenza rischia di essere solo una parodia della cognizione del dolore. Non è dolore, è dolorismo, secondo l’acuta intuizione dello scrittore Alberto Savinio. Il dolorismo non possiede la disperazione, l’altezza di tono, la nobiltà di gesto, la mediazione estetica delle vere tragedie. L’ultima variante del dolorismo è quella sorta di morbosità del crimine o turismo dell’orrore che ha ormai i suoi luoghi di culto: lo chalet di Cogne, la casa di Erba, le villette di Garlasco e Perugia, l’appartamento di Novi Ligure, il garage di Avetrana. Ma anche i suoi luoghi virtuali, le sue vetrine televisive, con tanto di plastici e di ricostruzioni minuziose della scena del crimine. Lo chiamano anche escursionismo macabro, voyerismo noir, turismo del diavolo. Ovviamente è un turismo esecrabile, come lo è l’insistenza dei molti programmi televisivi che oscenamente cavalcano, senza vergogna e senza misericordia, ogni dettaglio della triste storia.

In tutte le descrizioni dell’horror show, si difendono i diretti interessati, si tende a sottolineare con forza la distanza che esisterebbe ancora fra scena del delitto e finzione, tra fatti concreti e rappresentazione mediatica, fra realtà e televisione. Ma è davvero così?

Da cinquant’anni, gran parte della nostra vita sociale dipende dalla televisione, anche se oggi essa è il mezzo preferito solo da chi è meno attrezzato culturalmente; per gli altri, c’è Internet. Un tempo era facile distinguere realtà e rappresentazione, ma ormai i media sono i nostri nuovi ambienti di socializzazione, «luoghi» che frequentiamo ogni giorno, dove impariamo a comportarci, ripetere frasi ascoltate e imitare modelli di comportamento. Se una volta, oltre alla famiglia, esistevano alcune istituzioni che servivano come palestra formativa (la scuola, l’oratorio, il circolo, il cineclub, eccetera), da parecchi anni la televisione si è mangiata questi «luoghi della memoria condivisa» e ha cominciato a sbriciolare il confine con la realtà.

Si chiama esperienza mediale, viva e complessa: non solo cognitiva, ma anche emotiva, pratica, relazionale. Se la realtà è percepita soprattutto attraverso la televisione, alla fine vale anche il contrario: la realtà tenderà a organizzarsi attraverso format, regole televisive. L’esperienza del reale viene sempre più sottoposta a un processo di elaborazione, messo in atto da realtà virtuali, che finisce per mutare il nostro modo di percepire le cose. Il problema, se mai, è che questa grande rivoluzione culturale è nelle mani di personaggi che assomigliano sempre più a una compagnia di giro che ha trasformato il dolore in spettacolo.

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