Quando le filandaie cantavano immoderatamente

by Claudia

Ci sono parole più «piene» delle altre, termini che indicano un oggetto specifico ma che poi, usati per decenni, secoli e generazioni, finiscono per caricarsi di significati diretti o indiretti e costumi, trasformandosi in testimoni linguistici di un contesto più ampio e spesso rivelatore sul piano storiografico.

Da un paio di decenni il Centro di dialettologia della Svizzera italiana pubblica una collana di monografie intestate ad altrettante espressioni del repertorio popolare locale, che appartengono a questa categoria di parole-mondo e che forniscono lo spunto per pagine e pagine di gradevole cultura. Vale dunque la pena in queste settimane procurarsi l’elegante volumetto dedicato ora a Filanda e alla produzione storica della seta (Bellinzona, Centro di dialettologia e di etnografia, 2024).

La filiera della produzione della seta funziona grosso modo come segue. La larva di una specie di falena, il baco da seta, si ciba esclusivamente di foglie di gelso e, a un certo punto, secerne una sua bava attraverso la quale in qualche giorno si imbozzola chiudendosi in un unico filo avvolto attorno al proprio corpo tante e tante volte, nei casi migliori per una lunghezza del tratto di più di un chilometro. Il baco sta in questo stato per poco tempo, prima di trasformarsi in una crisalide e poi una farfalla. Per la produzione di seta l’animaletto viene ucciso prima che buchi il bozzolo per uscirne; e si riesce così a trarre, sfilare, quella specie di matassa di seta e renderla pronta per la tessitura.

L’attività di allevamento dei bachi e della conseguente produzione di filati di seta, nata nella Svizzera italiana su una scala di tipo artigianale, è poi diventata nel tempo una industria a pieno titolo, la principale attività imprenditoriale dell’Ottocento, che con l’introduzione di macchine a vapore dette avvio tra l’altro a tre fabbriche di grande aspetto, segnate da un’architettura spartana ma a suo modo monumentale. Nacquero così le filande Fogliardi di Melano, Bolzani-Torriani di Mendrisio (nell’edificio che ospita oggi l’omonimo centro culturale), Lucchini di Lugano (l’ampio complesso si ammira ancora, in gran parte, attorno al Corso Pestalozzi e alla Via Pioda).

È evidente che un’attività del genere rinvii a ricadute sociali e culturali più ampie, legate per esempio all’evoluzione da iniziative quasi famigliari, di portata circoscritta di una prima e antica stagione, a vere e proprie industrie di ambizione molto più ampia, con strutture di impresa moderne, che tra l’altro tra la metà e la fine del diciannovesimo secolo rendevano «quasi il doppio rispetto agli introiti ricavati da formaggio, burro e ricotta messi insieme, e quasi il triplo rispetto alla viticoltura».

Tra le implicazioni di tipo socio-culturale, c’è certamente il fatto che la quasi totalità della forza lavoro fosse rappresentata da personale femminile, sia nella fase artigianale che in quella industriale: nella prima, «le donne usavano per esempio far schiudere le uova portandole a stretto contatto con il corpo, in seno o sotto le ascelle, avvolte in una pezzuola; era il metodo domestico più diffuso, e verosimilmente più antico». E anche in fabbrica, in quella stagione così intensa, il lavoro era svolto perlopiù da donne, in non pochi casi anche da bambine piccole. Perché convinzioni di allora le ritenevano più adatte per «precisione, agilità manuale, pazienza, disponibilità, remissività», ma anche perché remunerabili con salari decisamente più bassi.

Di queste donne, la tradizione conserva i caratteristici canti, giacché durante il lavoro in filanda non era concesso parlare ma si poteva per contro pregare e cantare. Il canone diffuso è quello dei canti di lavoro e dei canti sociali, legati all’aspetto fisico delle filandaie ma anche alle condizioni di lavoro.

Quella del canto è, insomma, attività intensa, marcante e rimarcata, tanto che «nel 1880 il direttore del vicino penitenziario cantonale di Lugano scrisse al locale municipio lamentando il fatto che le operaie dello stabilimento serico Lucchini cantassero “così immoderatamente”».

Intenerisce e commuove infine, del rapporto tra famiglie e filanda, il racconto della bambina di Castel San Pietro che riconosce dall’esterno della fabbrica la voce della madre tra le altre che cantavano: «La riconoscevo la voce di mia madre; e dicevo: Senti la mia mamma come canta!, dicevo ai miei amici».

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