L’Antropocene non ce l’ha fatta, o per usare un gioco di parole, non è giunta l’epoca per l’Antropocene.
Facciamo un po’ di ordine. Il periodo geologico più recente, quello in cui viviamo, è il Quaternario, iniziato 2,58 milioni di anni fa; comprende al suo interno l’Olocene, l’epoca che ha avuto inizio 11’700 anni fa, con la fine dell’ultima glaciazione ed è attualmente in corso.
Il 4 marzo 2024, la commissione responsabile del riconoscimento delle unità temporali all’interno del Quaternario ha respinto la proposta del Gruppo di lavoro sull’Antropocene di decretare la fine dell’epoca Olocene e vararne una nuova, basata sull’uomo (anthropos) come fattore plasmante del sistema Terra. Secondo la commissione, questo passo non sarebbe sostenuto dagli standard usati per definire le epoche.
Dopo 15 anni di ricerche, il Gruppo di lavoro aveva proposto di definire l’Antropocene come un’epoca nella scala del tempo geologico il cui inizio risale al 1952. Il marcatore scelto era, infatti, il fallout radioattivo dei test della bomba all’idrogeno e in particolare i radioisotopi del plutonio. Tale data di inizio è stata anche motivata dalla «Grande Accelerazione», identificata dal climatologo Will Steffen e caratterizzata da un drastico aumento dell’attività umana a livello globale. Questo si è espresso nella rapida crescita della popolazione mondiale, dell’urbanizzazione, dell’industrializzazione, del consumo di risorse naturali e delle emissioni di gas serra. Il tutto accompagnato da una drastica perdita di biodiversità. Durante questo periodo, i radioisotopi hanno lasciato tracce riconoscibili a livello globale. A questi si è affiancata la dispersione di inquinanti organici e altri derivati di origine antropica, come cemento, plastiche e microplastiche.
Il limite tra due unità del tempo geologico viene visualizzato fisicamente dall’infissione del cosiddetto «golden spike» (chiodo d’oro) tra due strati che esprimono tale passaggio. Si tratta di un punto di riferimento che deve essere riconoscibile a livello globale e, per l’inizio dell’Antropocene, era stato individuato nei sedimenti intatti del remoto lago Crawford in Canada. Qui sono riconoscibili il richiesto incremento di radioisotopi ma anche quello di azoto derivato dai fertilizzanti e di residui dell’uso di combustibili fossili.
A far dubitare sulla valenza scientifica del termine sono stati diversi fattori. Secondo la commissione, non ci sono basi scientifiche solide a sufficienza per attribuire alle attività antropiche un’intera epoca geologica. In altre parole, la sua storia così recente (inclusa addirittura nell’arco di una vita umana!) sarebbe troppo limitata per comprendere gli effetti più profondi del cambiamento globale causato dalle nostre attività. È stato inoltre obiettato che l’impatto delle attività antropiche ha radici molto più antiche, risalendo alle prime forme di deforestazione a scopo agricolo, circa 10.000 anni fa. Ma in tal caso da un lato sarebbe impossibile riconoscere un punto definito per il golden spike, dall’altro ci si avvicina sempre più all’inizio dell’Olocene togliendo coerenza all’introduzione di una nuova epoca. La bocciatura è pertanto conseguenza di una sorta di «recentismo» e ha a che fare con la connotazione intrinseca di una disciplina come la geologia. Una scienza esclusivamente descrittiva rivolta all’indietro, non predittiva. La questione ruota pertanto non sul riconoscimento dei cambiamenti globali ma su quanto permanentemente questi saranno riconoscibili nel registro geologico.
La mancanza di un riconoscimento dell’Antropocene a livello di epoca non è un problema per la scienza, che gli può comunque attribuire lo status di evento. L’Evento Antropocene potrebbe separare l’Olocene da un’epoca successiva di cui ignoriamo ancora i connotati. Se così fosse, le microplastiche che ammantano ormai il pianeta avrebbero lo stesso ruolo del sottile strato di iridio che separa le rocce dell’era dei dinosauri da quelle successive, e che secondo i geologi rappresenta la polvere dell’asteroide caduto sulla Terra 66 milioni di anni fa.
Questa bocciatura «geologica» di tipo formale contribuirà comunque a stimolare il dibattito, sviluppandolo ulteriormente su un livello più ampio, di tipo storico, politico, etico e antropologico. In questi 15 anni di attività del Gruppo di lavoro sull’Antropocene sono comunque già emersi anche approcci che spostano la discussione dal piano della storia geologica a quello della geo-storia. Quello più conosciuto è il «Capitalocene» introdotto da Andreas Malm e sviluppato dallo storico dell’ambiente Jason W. Moore, individuando nel capitale il fattore di organizzazione della natura. Con ciò Moore prende le distanze dalla razionalità moderna, fondata sulla contrapposizione tra natura e umanità, vista come un tutto indifferenziato e astratto dalle dimensioni di classe e di potere. Includere la crisi climatica sotto il nome di Antropocene ne attribuirebbe le cause all’umanità tutta e non a quella parte responsabile di un particolare sistema di produzione. Sistema che ha generato drastiche diseguaglianze economiche e sociali e ha interpretato la natura come esterna all’umanità tanto che quest’ultima poteva infinitamente attingere ad essa. Secondo Moore, il cambiamento climatico non è il risultato dell’azione umana in astratto – l’Anthropos – bensì la conseguenza più evidente di secoli di dominio del Capitale. Piuttosto che antropogenico, il cambiamento climatico è pertanto capitalogenico.
L’epoca del Capitale precede necessariamente il golden spike proposto per l’Antropocene. Lo spostamento dall’Anthropos al Capitale comporta infatti una retrodatazione degli inizi del fenomeno. Non sarebbe la «Grande accelerazione» degli anni 50 del secolo scorso, ma il 1450, quando gli Europei cominciano a ricercare nuovi spazi di «natura a buon mercato». Appropriazione di nuove terre, legittimazione di schiavismo e colonialismo consentirono quell’accumulo originario che ha permesso lo sviluppo del capitalismo stesso.
Altri termini si sono affiancati al dibattito offerto dalla coppia Antropocene/Capitalocene e, per quanto curiosi, hanno avuto il pregio di aprire la strada a correnti di pensiero innovative. Citiamo quelli legati alle forme di produzione moderna che annientano ecosistemi interi eliminando persino i refugia, a partire dai quali un giorno potrebbero di nuovo diffondersi specie nuove (il Piantagionicene di A. Tsing, 2015). O quelli connessi alle astrazioni violente generate dallo sviluppo coloniale (il Crescitacene di E. Chertkovskaya e A. Paulsson, 2016 e l’Econocene di R.B. Norgaard, 2013) o alla miscelazione globale di persone, piante e animali un tempo separati (l’Omogenocene di C. Mann, 2013), che a sua volta rappresenta un’opportunità senza precedenti per la diffusione dei virus (il Pandemicene di E. Yong, 2022). Fino ad arrivare, in modo provocatorio, al Trumpocene, nuova epoca in cui un presidente degli USA nega il cambiamento climatico o perlomeno i suoi effetti deleteri (G. Readfearn, The Guardian, 2016).
In ogni caso anche se ormai si tratta di un termine ampiamente utilizzato, seppure in modo informale, dal punto di vista geocronologico l’Antropocene non ha fatto epoca. Siamo ancora nell’Olocene. D’altronde questo nome deriva dalle parole greche hólos («del tutto») e kainós («recente»). Nomen omen.