Cent’anni di umanità

by Claudia

Nell’opera poetica di Mary de Rachewiltz è spesso protagonista l’universo contadino e la quotidianità di una famiglia tirolese

Come provenisse – oggi – da un altro mondo, Processo in verso (Bertoni, 2024), antologia a cura di Massimo Bacigalupo che riunisce «tutte le poesie italiane» di Mary de Rachewiltz, è un libro che rischiara il panorama dell’attuale editoria italofona, troppo spesso – specie se si parla di versi – strozzata da un proliferare di pubblicazioni ipertrofico, il cui mare magnum soffoca nell’indifferenziato quanto di prezioso potrebbe emergere.

Controcorrente rispetto allo spirito contemporaneo, l’opera della de Rachewiltz si contraddistingue infatti per l’economia della parola così come dell’insieme: cinque plaquettes su un secolo di vita (quasi tutte pubblicate, fra 1965 e il 2002, con Scheiwiller e a cui ora si aggiunge una serie di «poesie disperse») in cui sono raccolti componimenti che sovente non superano la metà della pagina. Si tratta, quindi, di una poesia inevitabilmente meditata e cesellata, la cui lettura richiama il lento lavorio delle forze del tempo. «Consideravo i miei versi più che altro una trasgressione», si legge in una delle note riportate, «pagliuzze che hanno spezzato il dorso al mulo, in quanto pensavo che nel campo della poesia io ero semplice mezzadra che doveva zappare la terra altrui, cioè tradurre».

Per chi non lo sapesse, a questa «semplice mezzadra» il lettore di lingua italiana deve, oltre che le traduzioni di Robinson Jeffers ed E. E. Cummings, nientemeno che la versione integrale de I cantos di Ezra Pound, forse la più importante opera in versi di tutto il Novecento. Figlia del grande poeta americano e della violinista Olga Rudge, la de Rachewiltz cominciò a dedicarsi alla traduzione del poema sotto la supervisione del padre, per poi portare a compimento l’edizione completa, con cui vinse il Premio Monselice, nel 1985. Eppure – come osserva Bacigalupo nella sua introduzione a Processo in verso – in poesia la sua voce non si perde «in futili esercizi formali, “alla maniera di”» e colpisce per la propria indipendenza e chiarezza d’identità.

Protagonista, qui, spesso è l’universo contadino, a cui l’autrice è visceralmente legata da un punto di vista biografico: affidata a una famiglia tirolese (vedeva i genitori nella vacanze estive), ebbe un’infanzia da pastora, che più volte si affaccia tra i versi attraverso il ricordo o tramite considerazioni che rivelano un’indole imparentata all’essenza delle cose, alle loro radici più semplici e fonde: «Mille volte povera, / solo la neve / sul cappello di paglia / m’appartiene, leggero / dono del cielo, / in paese straniero».

Altro tratto che contraddistingue questo mondo in poesia è la riflessione amorosa, mai scontata e capace, anche, di soluzioni creative ironiche, come si legge, ad esempio, in questi versi di Fedeltà in cui rievoca il triangolo sentimentale Ezra Pound-Dorothy Shakespear-Olga Rudge: «Diceva mio padre / fedeltà coniugale / spesso e volentieri salta / una generazione, / ma dall’elenco ragionato / degli avoli fidi / e infidi escludeva se stesso / sicché io arrivata al bivio / non so quale strada / inforcare, né mi ha mai spiegato / il meccanismo della prova / del nove in ma – / tematica. (Chiaro mi è / solo che / sono la √ / di due.)

E, sempre a proposito del padre Pound, non mancano (a chi li sa cogliere) alcuni riferimenti alla sua poesia – superbamente incastonati nel proprio preciso ed elaborato dettato – così come altri dedicati al suo discusso côté biografico. Nella poesia Soluzione, ad esempio, è possibile ravvisare un rimando ai noti fatti del ’45, quando, a causa del suo innamoramento per il fascismo e dei radio-discorsi per Radio Roma, Ezra Pound fu imprigionato (a dir poco barbaramente) dall’esercito statunitense in un campo di concentramento nei pressi di Pisa e, successivamente, incarcerato per dodici anni nel Saint Elizabeths Hospital di Washington: «Chi ha trasgredito / e da giusto / è stato punito, / chi per onor di gioco / ha pagato in contanti, / capirà che l’assoluzione / giunge sempre quando / più non serve perché / di già dentro di noi / s’è trovata la soluzione».

Bellissime pure sono le poesie che ritraggono attimi di quotidianità domestica fra le torri del castello di Brunnenburg, a Tirolo nel Trentino-Alto Adige, dove l’autrice risiede dal ’48 accogliendo, da sempre, studiosi e traduttori de I cantos provenienti da ogni dove: «Cara vecchia casa / corrosa dal tarlo / dal fungo di pietra / di legno a da muffa, / costruita su sabbia, / per quanto tempo ancora / potrò tenerti in vita / a furia d’amore / e forza di volontà?».

Leggere i versi della de Rachewiltz, forse, significa proprio questo: entrare in un libro quasi fosse un’abitazione in cui è passata la Storia con la «s» maiuscola – quella Storia che, secondo Montale, lascia «sottopassaggi, cripte, buche / e nascondigli» – per sentire tutto il peso degli incontri, degli eventi e delle perdite aleggiare come un odore antichissimo fra pagina e pagina, dove sono cadute le parole di chi è stato testimone e interprete di cent’anni di umanità.

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