Echi di un passato tuttora presente

Forse a causa del fatto che gli adolescenti di allora veleggiano ormai verso la mezza età, è innegabile come la nostalgia per la musica anni Ottanta sia oggi più sentita che mai — cosa di primo acchito singolare, considerando quanto l’epoca patinata che vide imperversare spalline, trucco fluorescente e playback televisivo possa sembrare ben poca cosa, rispetto ai fasti rock dei due decenni precedenti. Eppure, complice il trasporto emotivo verso la gioventù perduta, per gli over quaranta il legame con gli artisti di allora sembra farsi sempre più forte, soprattutto nei (rari) casi di performers dimostratisi in grado di rimanere sulla breccia fino ai giorni nostri e continuare, seppur saltuariamente, la propria attività.

Tra di essi, un caso particolarmente interessante è quello della formazione britannica dei The Cure, celebre per aver contribuito alla nascita del cosiddetto movimento dark (oggi ribattezzato goth). E se basta un rapido calcolo a ricordarci come la band abbia già superato il suo quarantacinquesimo anniversario (l’esordio risale al 1979), ciò che più stupisce sono gli ultimi sedici anni di silenzio, tempo non trascurabile perfino per un gruppo noto per aver più volte paventato un imminente scioglimento. Tuttavia, anche stavolta il pericolo sembra scongiurato, dato che, proprio quando i fan non ci speravano più, la formazione capitanata dall’inossidabile Robert Smith ha infine dato alle stampe il nuovo Songs Of A Lost World, per molti versi l’equivalente di un vero e proprio viaggio nel tempo. Sì, perché inserire questo CD nel lettore costituisce un flashback a tratti quasi surreale per l’ascoltatore, dal momento che ogni sua traccia potrebbe provenire da dischi quali Faith (1981) o Disintegration (1989): il parallelo con quest’ultimo è particolarmente evidente in Alone, prima, ipnotica traccia di quest’album, voluto richiamo alla struttura melodica di Plainsong, il piccolo capolavoro che apriva l’opera di trentacinque anni or sono.

La tracklist si dipana così tra lunghe digressioni gotiche, in tutto e per tutto reminiscenti dei The Cure che abbiamo imparato a conoscere a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta — una band per la quale la forma canzone rappresentava qualcosa di molto diverso rispetto alle idee di molti coetanei dell’epoca, troppo concentrati nella produzione di orecchiabili e radiofoniche hit da classifica per indugiare negli esperimenti di «rock alternativo» che il gruppo di Robert Smith intesseva nell’arco di dischi intrisi di palpabile malinconia e angoscia esistenziale. Caratteristiche che in Songs Of A Lost World rivivono in tutta la loro magnificenza grazie a brani elaborati e inevitabilmente ossessivi, anche stavolta arricchiti da ampie sezioni strumentali e orchestrali: si vedano And Nothing Is Forever e All I Ever Am, i quali non mancano di riproporre il tipico sound elettropop del gruppo, a base di sintetizzatori e drum machines e coronato dal cantato vagamente strascicato di Robert.

Certo, ciò significa che Songs Of A Lost World non offre la benché minima sorpresa — nemmeno il più piccolo sussulto a smuovere la collaudata impalcatura che da sempre costituisce la peculiare cifra stilistica della band; del resto, la vera intenzione dietro questo CD sembra essere quella di una sorta di auto-tributo, come evidente fin nei più piccoli particolari (ad esempio le liriche, quasi intercambiabili con quelle di un qualsiasi disco del periodo d’oro dei The Cure). E la sensazione è che questa continua autocitazione sia, in fondo, l’ultimo, sentito omaggio della band ai fan di vecchia data — una nuova immersione nelle sonorità e suggestioni da loro tanto amate, e che Smith e i suoi sono ben felici di concedere, passando con disinvoltura da brani sentimentali quali A Fragile Thing e I Can Never Say Goodbye a piccole gemme di gusto enfaticamente dark quali le oscure e distorte Warsong e Drone:Nodrone. Fino alla traccia di chiusura del CD, appropriatamente intitolata Endsong — forse l’apice di quello che potrebbe essere interpretato, a seconda dei casi, come un addio o una rinascita: un brano di ben dieci minuti di lunghezza, che sembra riassumere in poche note l’emozione provata da chiunque, negli ultimi quarant’anni, abbia mosso i propri passi nel mondo accompagnato dalla colonna sonora fornita dal gruppo.

Del resto, come un ammiratore di vecchia data ha sottolineato, «quest’album riassume i tempi recenti per come vissuti da ognuno di noi»; quasi a sottolineare che, con il passare degli anni, la magia è rimasta invariata, pur adattandosi al presente. Così, indipendentemente dal fatto che le note dolenti e sentite di Songs Of A Lost World rappresentino o meno il congedo ufficiale dei The Cure, è difficile non provare sentita gratitudine verso questo nuovo dono della formazione britannica: un modo di rinnovare il magnetismo di una presenza che, a dispetto della lunga latitanza, non si è mai attenuata — e, perché no, ricordare a tutti noi per quale motivo non abbiamo mai smesso di amare Robert Smith e colleghi.

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