(Marti)

Mine, K-pop e ginseng al confine tra le due Coree

by Claudia

A vedere svettare la bandiera nordcoreana sulla cima di un pilone d’acciaio alto 160 metri in mezzo al nulla, viene da chiedersi che senso abbia tutto questo. «È una vera e propria gara per toccare il cielo!» commenta scherzosamente la nostra guida, portando il binocolo agli occhi e scrutando il confine. «Quando noi sudcoreani abbiamo issato la nostra bandiera a 100 metri d’altezza, loro hanno immediatamente raccolto la provocazione spingendosi ancora più in alto. Ma questa è solo una sconfitta temporanea…».

Sulla bandiera del regime di Pyongyang, la stella rossa simboleggia il comunismo, mentre il disco bianco rappresenta la luce e l’equilibrio eterno dell’universo. Ma qui, nella zona di confine demilitarizzata che separa i due Paesi, la cosiddetta DMZ, una striscia di quattro chilometri di terra di nessuno attraversata da campi minati, filo spinato elettrificato e checkpoint, l’equilibrio è tutt’altro che eterno. Anzi, qui tutti sono in costante allerta, giorno e notte, non si sa mai. Il terzo e ultimo piano del punto di osservazione sudcoreano di Dora, da cui si possono scorgere i grattacieli di Kaesong, terza città della Corea del Nord e antica capitale del regno medievale di Goryeo, è stato chiuso recentemente ai turisti. «La tensione è più alta che mai in questi mesi», ci confida preoccupato un giovane soldato. «Abbiamo paura che qualche cecchino nordcoreano possa aprire il fuoco».

Dora, un luogo strategico per osservare il Nord. A poche decine di chilometri da Seul e a pochi passi dalla storia recente: aguzzando lo sguardo, più giù, su una collina, si vedono gli edifici azzurri della Joint Security Area dove cinque anni fa Donald Trump e Kim Jong-un si sono incontrati davanti alle telecamere di tutto il mondo. Un momento di speranza che oggi sembra lontanissimo. Recentemente, in un’operazione scenografica dall’alto valore simbolico, i nordcoreani hanno fatto saltare in aria le strade a ridosso del confine. La decisione di Pyongyang sarebbe stata presa per proteggersi meglio dal rischio di un’invasione, a causa delle esercitazioni militari congiunte con gli Stati Uniti riprese a novembre. L’esercito di Seul, in risposta, ha sparato colpi di avvertimento innalzando la tensione.

Negli anni Novanta l’allora presidente americano Bill Clinton aveva definito la zona demilitarizzata tra le due Coree come «il luogo più spaventoso sulla Terra». Fa una strana sensazione rendersene conto: a differenza nostra, a differenza dell’Europa, qui al 38esimo parallelo il Novecento non è mai finito e la Guerra fredda continua a bruciare, giorno dopo giorno, da oltre 70 anni. Tecnicamente il conflitto tra le due Coree, esploso tra il 1950 e il 1953 e costato la vita a tre milioni di persone, è ancora in corso. Fu molto più di una guerra locale. Una feroce proxy war tra gli Stati Uniti e il blocco comunista capeggiato dall’allora neonata Cina di Mao Tse-tung, che trasformò la penisola coreana in un micidiale campo di battaglia per spartirsi i territori liberati dall’occupazione giapponese. Da allora nessun trattato di pace è mai stato firmato e l’unico argine alle ostilità aperte resta il fragile armistizio firmato 71 anni fa.

Un caso unico al mondo, come unico è il panorama naturale in questo lembo di frontiera dove la guerra ha cancellato ogni traccia di vita umana. In quasi tre quarti di secolo, l’assenza dell’uomo ha lasciato spazio ad una natura incontaminata che i volantini destinati ai turisti pubblicizzano con enfasi, tra immagini di fiori, lontre e gru coronate rosse. Qui prosperano centinaia di specie vegetali uniche e mammiferi quasi estinti altrove, come l’orso nero asiatico, il cervo d’acqua cinese e forse addirittura il leopardo dell’Amur e la tigre siberiana. Un gioiello di biodiversità che fiorisce lungo tutti i 257 chilometri della linea di confine e che rappresenta un monumento spontaneo della natura alla follia umana. È paradossale: nella iper-industrializzata Corea del sud solo la guerra e la violenza degli uomini sono riuscite a proteggere gli ultimi territori vergini. Al margine della zona cuscinetto si coltivano anche eccellenti prodotti agricoli, curati da pochi contadini sotto la protezione dei soldati. «I loro raccolti sono squisiti perché, senza l’inquinamento umano, sono davvero biologici», ci spiega la proprietaria del negozio di alimentari riservato ai militari delle Nazioni unite, tra cui anche alcuni svizzeri. Quella in Corea è la missione di pace elvetica più datata. Appena concluso l’armistizio, nel 1953 il Consiglio federale decise di inviare 150 soldati e ancora oggi la Svizzera mantiene il suo impegno con cinque ufficiali in servizio.

Nella zona più militarizzata del pianeta la natura trionfa. Un cielo blu cobalto si stende sopra i boschi di querce, mentre il sole al tramonto incendia i campi di riso e di ginseng in un vivido arancione. Ma questa strana bellezza dura solo un istante. Tra le piante spoglie, giganteschi altoparlanti sudcoreani puntati verso nord emettono ad altissimo volume un profluvio di messaggi di propaganda anti-regime e di K-pop. Un’altra assurdità del 38esimo parallelo, un contesto sonoro totalmente surreale e quasi distopico. Il fruscio del vento tra le fronde degli alberi si mescola con le assordanti canzoni d’amore delle pop band coreane, vietate oltre confine e simbolo della spensieratezza, così almeno si vorrebbe, delle democrazie di stampo occidentale. Una forma di guerra psicologica contro la dittatura del nord, ripresa lo scorso giugno dopo anni di silenzio. Mentre volgendo lo sguardo in alto, sopra queste assurde vicende umane si scorgono folti stormi di uccelli. Il rumore degli altoparlanti soffoca persino il loro canto. Ma poco importa. Ignari di tutto, gli storni planano leggiadri sulle risaie millenarie, beccano, decollano in formazione di squadriglia e poi si posano di nuovo su un raccolto più ricco nelle vicinanze.

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