Dici Punjab e nella mente della maggioranza si accendono immagini di uomini in turbante, feste chiassose, abiti colorati e danze scatenate. Dici Punjab e qualcuno pensa a rapper che, sull’esempio di quelli americani, compongono canzoni e girano video a bordo di auto di lusso e armati di pistole. Dici Punjab e, negli ultimi tempi, alcuni pensano al Khalistan movement, alle proteste del Canada contro le presunte ingerenze indiane e la presunta persecuzione, da parte di Nuova Delhi, degli appartenenti al movimento separatista che domanda una patria separata chiamata Khalistan. Dall’India, però. Perché curiosamente i patrioti liberatori chiedono la liberazione non dell’antico regno del Punjab, quello di cui era a capo il Maharaja Ranjit Singh e che aveva Lahore (ora Pakistan) come capitale, ma del solo Punjab indiano.
Il confine, a pochi chilometri da Amritsar e a pochissimi chilometri da Lahore, il confine in cui ogni giorno va in scena il coloratissimo spettacolo della chiusura serale dei cancelli, gioca un ruolo fondamentale nelle dinamiche sia psicologiche sia di ordine pubblico. Ma andiamo per ordine. Cominciando dal simbolo religioso e politico per eccellenza del Punjab indiano: il tempio d’oro o, come lo chiamano qui, il Darbar Sahib. E qui non arrivano neanche gli echi del clamore esterno. Le uniche parole sono quelle delle preghiere diffuse dagli altoparlanti e riprese dal mormorio a fior di labbra della folla raccolta in preghiera. Composta, ordinata, gentile. Una folla che si apre per lasciar passare i più anziani, le donne con bambini piccoli, gli invalidi. Una folla che, anche quando si riversa a cucinare, mangiare, scattare selfie attorno al maestoso edificio principale, mantiene la sua compostezza e la sua serenità. Non arrivano echi, qui. Non gli echi delle affollate strade circostanti, né tantomeno gli echi lontani, lontanissimi, delle polemiche che impazzano sui giornali stranieri. Non c’è traccia, qui come in altri gurdwara locali (luoghi di culto del Sikhismo), delle gialle bandiere del Khalistan movement che deturpano i templi canadesi, inglesi o italiani.
«Fin dalla sua fondazione – racconta un noto intellettuale locale – il movimento ha sempre avuto molto più a che fare con la diaspora Sikh che con il Punjab indiano, in cui praticamente conterà tre famiglie di seguaci». Un centinaio di persone, dichiarano giornalisti e poliziotti locali, che si vedono per strada una volta l’anno con tanto di bandiere del Khalistan movement alla mano e macchine fotografiche. Per scattare foto, dicono, da allegare alle richieste di asilo in Canada o in Gran Bretagna in cui dichiarano di battersi per una patria dei Sikh e per la «liberazione del Punjab» e che regolarmente dichiarano di essere per questo motivo perseguitati.
Eppure qui nemmeno gli studenti universitari sono sensibili al richiamo del separatismo: «C’è stata qualche sporadica manifestazione per Gaza», dichiara un professore della Kalsa University, «ma di certo mai, ma proprio mai, una manifestazione a sostegno dei separatisti». «Perché il problema vero», dichiara Ravinder Singh Robin, giornalista locale, «non è la militanza, quella è scomparsa da qui moltissimi anni fa e sopravvive soltanto all’estero. Il problema è la droga, sono le gang criminali». Funziona così, spiegano polizia e politici: prima arriva la droga. Arriva da oltre confine, a bordo di droni che trasportano droga e anche armi: solo nell’ultimo mese ne sono stati abbattuti più di trecento. I consumatori diventano poi spacciatori e parte di vere e proprie gang criminali. Una volta «fidelizzati», i giovani vengono adoperati dall’Isi (Inter-services intelligence) pakistana, che sponsorizza i droni da oltre confine, per omicidi mirati di politici locali e per contrabbando di armi. Alcuni vengono in seguito inviati all’estero e insediati nelle comunità locali per fare proselitismo e propaganda per il fantomatico separatismo Sikh. Di cui i giovani della diaspora sono facile preda perché, secondo la studiosa Kamala Nayar: «Si appropriano dell’ideologia separatista per combattere la propria crisi di identità e per affermarsi in opposizione alle norme culturali dei loro genitori. Allo stesso modo la pistola, impugnata indiscriminatamente da politici e poliziotti, significa potere e status. Infine, anche il patriarcato ha avuto un ruolo nell’alimentare la cultura delle bande».
Eppure, in Punjab, le bambine vengono adesso addestrate a scuola in arti tradizionalmente «maschili» come il kabbadi o il karate (mentre i maschi, alla Kalsa University, si esercitano nel bhangra, la danza tradizionale) e godono di una estrema libertà di movimento e di scelta. Tornando ai gangster all’estero: ricevono il sostegno della rete separatista Khalistan e del Pakistan e, in seguito, rimettono radici in patria sponsorizzando sport a livello di villaggio, facendo donazioni a templi e gurdwara, acquistando auto e proprietà di grandi dimensioni e fomentando allo stesso tempo tensioni sociali, religiose e di classe.
L’alto tasso di disoccupazione tra i giovani in Punjab facilita le cose. «La soluzione – dice il sindaco Sukhdeep Singh – sta nella cultura, nella qualità dell’istruzione. Nel sorvegliare ed educare i nostri figli, senza girare la testa dall’altra parte». Sindaco e cittadino dei due villaggi gemelli di Gopalpur e Majhwind, Singh è un esempio per tutto lo Stato. «Negli anni del terrorismo avevamo ronde di protezione dei cittadini, istituite da noi. Diamo sostegno e protezione a quelli tra i nostri ragazzi, e sono pochissimi, che cadono vittima di droga e spaccio. Qui non ci sono differenze di religione o di casta, manteniamo e custodiamo templi di ogni religione». Perfino una tomba di un santo musulmano, anche se qui non ci sono più musulmani. Una biblioteca e anche uno stadio dove praticare sport. Per tenere i ragazzi lontani dal confine, dai guai, da quelli che promettono soldi facili e un passaporto canadese.