Tre lettere maiuscole al neon color verde acido mela granny smith, in verticale, riluciono nella fuga prospettica sfumata nella nebbia di via Orobia che fa molto Sironi. L’insegna luminosa di un generico bar, in contrasto con il beige deliberatamente delabré di una ex distilleria riconvertita da Rem Koolhaas nella Fondazione Prada, è il delicato preludio a un posto più che speciale. Il bar immaginato dal regista Wes Anderson: I Tenenbaum (2001), Le avventure acquatiche di Steve Zissou (2004), Grand Budapest Hotel (2014), per citarne solo tre, per ora, attentissimo ai dettagli, l’atmosfera retrò ossessiva al limite del leitmotiv pastello-perfettino, simmetrie maniacali. Appena dentro il bar Luce, inaugurato il nove maggio del 2015, appeso a sinistra sulla boiserie leggera, c’è incorniciato un fotogramma di Miracolo a Milano (1951). La scena invernale, girata in un terreno vago vicino ai binari di Lambrate, è quando gli abitanti della baraccopoli si raggruppano per scaldarsi nel cono flebile di sole. Sopra la boiserie tipo legno di ciliegio, inizia la carta da parati a motivo galleria Vittorio Emanuele II, luogo simbolo di Milano dove nel 1913 parte la storia di Prada con le valigerie.
La formica turchese domina questa riproduzione di bar italiano anni cinquanta: otto tavolini, otto poltroncine pastello con mini tavolino-vassoio girevole, parte delle due colonne, i cestini, e soprattutto i banconi. Nei banconi, rapisce subito la vetrinetta retroilluminata in grembo. Un bancone così, con le bottiglie dentro la vetrinetta, appare nel baretto di paese in Castello Cavalcanti (2013), cortometraggio felliniano dove un corridore delle Molte Miglia si schianta contro la statua di un santo. Finisce per sentirsi a casa fuori dal bar, ritrovando i suoi antenati attraverso i vecchietti che giocano a carte sorseggiando un aperitivo fittizio battezzato Limetta Pazzo.
Liquori veri, alcuni estinti, sono esposti qui in una delle quattro vetrine. Nel mio studio al volo, semi-inginocchiato, la carrellata conta ventitré bottiglie desuete con lo sfondo di rettangolini-specchio come sfere da discoteca. Tra le quali brilla il liquido color camomilla del Millefiori Cucchi distillato un tempo a Cernusco sul Naviglio, dentro il quale c’è, come pianta d’acquario, un ramo d’erica. Accanto al Kambusa – infuso di erbe amaricanti dei Mari del Sud prodotto una volta a Dolzago e la cui ancora-logo lega il nome marinaresco al suo slogan – non poteva mancare il Brandy Cavallino Rosso. Prodotto proprio qui, nella distilleria Società Italiana Spiriti il cui acronimo corrisponde ai servizi segreti inglesi e su questo, ai tempi, ci giocava uno spot pubblicitario.
Il soffitto, con pieghe a fisarmonica simili alla carta ondivaga dei titoli delle canzoni nei jukebox, continua il gioco illusionistico della galleria, ventidue lampadari-lampioni prolungano la finzione. Azzanno, al bancone, fuori orario, la veneziana alla crema, una cannonata va detto, pasticceria Marchesi (1824). I tavolini sono tutti occupati, tanti divorano panini fatti a regola d’arte. Il piacere del posto è il continuo sentirsi al confine tra bar vero e set cinematografico. In un trafiletto della rubrica Mirabilia sul domenicale del «Sole 24ore » di quasi una decade fa, Stefano Salis osserva: «il Bar Luce è un’idea di bar italiano degli anni 50». È questo il trucco, come nei suoi film, la finzione è dichiarata e la cura delle sue creature è tale da farle sembrare più vere o possibili della realtà . Immaginazione e realtà sconfinano sempre l’una nell’altra.
In uno dei due flipper, come nei giochi di scatole cinesi di certi paesaggisti fiamminghi, riacchiappo con gli occhi, in miniatura naïf, bancone e bella barista del paesino Castello Cavalcanti. L’altro flipper è identico a quello che spunta nel café Le Sans Blague di The French Dispatch (2021). Un aggiornamento: l’ultima volta, sei anni fa, con il mio amico Fabio, in occasione di due Caravaggio, al suo posto c’era il flipper apparso a Nettuno e dedicato al protagonista oceanografo del secondo film citato prima. Purtroppo «i flipper non funzionano più» dicono i camerieri. Pure il jukebox è ornamentale, una cedrata, seduto, con calma, come attività , ora, il giorno dell’Epifania, è quantomeno necessaria. La glassa rosa antico della torta, in una delle vetrinette del bancone, mi ricorda l’immaginaria pasticceria mitteleuropea Mendl’s.