«Donald Trump è forte e imprevedibile, e quindi capace di fermare Vladimir Putin». Nell’attesa del 20 gennaio il presidente ucraino insiste, in numerose interviste, che la qualità che più preoccupa molti nel nuovo leader americano è invece una virtù. Volodymyr Zelensky, che non ha risparmiato critiche taglienti a molti leader occidentali, è estremamente attento a non irritare il prossimo presidente americano, anche rispetto alle sue promesse di togliere a Kiev gli aiuti necessari a respingere l’invasione russa. Un atteggiamento che potrebbe essere la tenacia della disperazione visto che, senza l’assistenza politica e militare degli Stati Uniti, l’Ucraina probabilmente non potrà resistere a lungo. Potrebbe essere anche dettato dalla delusione per l’indecisione dell’amministrazione Biden, oppure dalla speranza di lusingare il suo successore, che spesso si mostra più emotivo che razionale. Potrebbe anche essere un calcolo lucido, di fronte alla prospettiva di una tregua con Mosca che viene data per imminente da molti media internazionali, ma che vista dalle città bombardate dell’Ucraina appare molto meno probabile.
Del resto anche lo stesso Trump, dopo la vittoria, non ha più ripetuto la sua promessa di «far finire la guerra in 24 ore». Pochi giorni prima dell’entrata in carica ha parlato più vagamente di un termine di sei mesi, mentre il suo inviato speciale per l’Ucraina, il generale Keith Kellogg, prima di partire per Kiev si è posto il termine di 100 giorni per raggiungere un accordo. Sul «piano di pace» esistono per ora soltanto delle indiscrezioni di alcuni esponenti del team trumpiano, e delle dichiarazioni del presidente eletto dalle quali non risulta chiaro cosa pensi dei punti chiave dell’ipotetico accordo: dove passerà la linea di «congelamento» del conflitto, chi la controllerà e soprattutto quali garanzie di sicurezza otterrà l’Ucraina contro una ripresa dell’aggressione russa e contro i bombardamenti. Domande cui l’America non può rispondere da sola. Non si possono lasciare i territori occupati dell’Ucraina sotto il controllo di fatto dei russi senza il consenso di Kiev, e Putin insiste per ottenere anche territori che non ha conquistato, e di annetterli alla Russia, un atto che il diritto internazionale non può riconoscere. La forza di interposizione nel Donbass sarebbe, nella visione dei trumpiani, composta da truppe europee, ma nelle capitali dell’Unione europea non si vede molta disponibilità a inviare i propri soldati. E non è chiaro quanto Mosca accetterebbe dei peacekeeper di Paesi della Nato. Infine, sulla questione più importante, Trump sembra contrario a far entrare Kiev nella Nato, però senza gli alleati e le loro armi a garantirne l’incolumità, l’Ucraina non può che continuare a combattere, e una sua eventuale sconfitta metterebbe tutto l’Est e Nord Europa a rischio di un’ulteriore espansione russa.
Una situazione talmente complessa da spiegare perché Trump all’improvviso porti in cima alla sua agenda internazionale Panama e la Groenlandia (che oltretutto sarebbe strategica proprio per fronteggiare la Russia nell’Artico). Prima di proporre un negoziato che suoni convincente per Kiev e poi per Mosca, oltre che per gli europei, la nuova Casa Bianca deve capire di quali bastoni e di quali carote dispone. Se gli ucraini possono venire ricattati con la minaccia di consegnare il loro Paese di fatto a Putin, gli strumenti per fare pressioni sul dittatore russo sono molto meno evidenti. A giudicare dalle sue ultime dichiarazioni – inclusa l’inquietante affermazione «vinceremo perché dio è con noi!», fatta in una conferenza stampa a fine 2024 e ripetuta nella messa di Natale dal patriarca di Mosca Kirill – il padrone del Cremlino ritiene di essere nella posizione del più forte. La sua tattica del 2024 è stata quella di resistere fino alla vittoria di Trump e, negli ultimi mesi, le truppe russe hanno battuto il record delle perdite, con il comando che le sta spingendo ad avanzare a ogni costo per trovarsi nella posizione più possibile vantaggiosa al momento dell’eventuale tregua. Uno sforzo che ha alzato il numero dei russi uccisi e feriti nell’invasione a 800 mila in meno di tre anni: un numero immenso, e l’esercito russo fa sempre più fatica a colmare i suoi ranghi con i volontari, mentre una mobilitazione sembra rimanere un tabù per Putin, che non vuole rischiare un collasso dei consensi. Ma la vera vulnerabilità della Russia è nell’economia: con l’inflazione in perenne aumento e i tassi al 21% nonostante le proteste degli oligarchi, e con le sanzioni internazionali che cominciano a colpire anche il commercio con la Cina e l’India, il Cremlino non potrà mantenere ancora a lungo una macchina bellica in espansione. Se, come credono molti commentatori, il nuovo padrone della Casa Bianca vorrà usare l’arma del barile, facendo abbassare i prezzi del petrolio, la Russia potrebbe entrare in crisi già nel 2025.
È una corsa contro il tempo quindi, per entrambi: l’Ucraina è drammaticamente a corto di uomini da mandare al fronte, e l’avanzata lenta ma costante dei russi sta mettendo a rischio le sue difese nell’Est del Paese. Dai sondaggi sembra che la quota dell’opinione pubblica ucraina contraria a lasciare dei territori sotto l’occupazione russa si sia visibilmente ridotta negli ultimi mesi, anche se resta per ora la maggioranza. Putin, al contrario, preferisce parlare di «vittoria» invece che di «pace»: ha rifiutato la proposta di tregua natalizia e in diversi discorsi di fine anno ha decantato i nuovi missili russi a testata multipla Oreshnik. È vero che Trump probabilmente sente più affinità, di visione e di metodo, con il padrone del Cremlino, ma non potrà ignorare né gli interessi degli ucraini – ai quali Kellogg ha promesso «garanzie per salvare la loro sovranità», negando che il suo principale voglia «favorire» Putin – né degli europei. Per il regime di Putin, imperniato ormai sul sentimento anti-europeo e soprattutto anti-americano – bastava vedere il video propagandistico del Santa Claus americano abbattuto nei cieli di Mosca insieme alle renne da un missile russo puntato dal Nonno Gelo autarchico – la svolta verso una «distensione» con gli Usa sconvolgerebbe la base del potere del Cremlino, mentre la prosecuzione della linea che dipinge l’America come l’impero del male difficilmente verrà gradita dalla nuova amministrazione repubblicana. E, in quel caso, l’imprevedibilità di Trump nella quale confida Zelensky potrebbe portare a una nuova escalation.