Alcune immagini riprese durante lo spettacolo (Fotografie di Luna Macelloni, Francesco Scaramuzzi, Valerio Salvatore)

Paesaggi audiovisivi dello spaesamento

by Claudia

La morte non è solo un fatto personale, giacché continuiamo a esistere per chi, fra coloro che ci hanno conosciuto, ci evoca nel ricordo. Come afferma Jean-Paul Sartre ne L’essere e il nulla (il Saggiatore, Milano): «La mia esistenza da morto non è la semplice sopravvivenza spettrale “nella coscienza dell’altro”, di semplici rappresentazioni (immagini, ricordi ecc.) che mi riguardano. Il mio essere-per-altri è un essere reale e si trova nelle mani d’altri come un mantello che gli lascio dopo la mia scomparsa».

Quando il nostro corpo ci abbandona, rimangono oggetti, testimonianze, tracce che continuano a parlare di noi: come un mantello che ci è appartenuto, che gli altri sono chiamati a custodire. Dalla consapevolezza che esistiamo anche attraverso gli altri, e che gli altri esistono attraverso di noi, ha preso spunto l’attore e regista Simon Waldvogel per realizzare, assieme al collettivo Treppenwitz – realtà tra le più innovative della scena indipendente ticinese –, lo spettacolo teatrale Surviving You, Always, andato in scena negli scorsi giorni nella sala teatro del Lac.

Tutto ha avuto inizio – come rivelano alcune note che accompagnano il programma dello spettacolo – quando, durante un trasloco, Waldvogel ritrova un vecchio proiettore e centinaia di diapositive che raccontano la vita del padre, la sua infanzia e giovinezza, fino alla sua scomparsa prematura. Immagini che, come il mantello evocato da Sartre, diventano tracce, testimonianze, fotogrammi del passato che riprendono vita. Il lavoro della memoria è complesso, ha tempi lunghi, non è lineare. La memoria non si limita a conservare, ma innesca un processo trasformativo che suscita interrogativi, che, nel caso di Waldvogel, pongono le basi del suo lavoro artistico.

Combinando live-set, installazioni visive, scenografie e coreografie scarne ed essenziali, Surviving You, Always si configura come un’immersione nella sfera emotiva e nel mondo interiore, un gioco di immagini, suoni e movimenti attorno all’esperienza della perdita, del lutto, del ricordo delle persone con cui abbiamo trascorso parte delle nostre vite e che ora non ci sono più. Purtuttavia, nel lavoro artistico, a partire dal vissuto personale, la memoria individuale si trasforma, l’esperienza è condivisa, diventa un flusso che coinvolge gli attori e il pubblico che, da semplice spettatore, diventa parte attiva dello spettacolo.

I corpi in scena diventano schermi, superfici vive su cui indugiano e scorrono immagini di una vita passata. L’uso di tecniche artistiche come collage, sovrapposizioni e moltiplicazioni, e di accorgimenti stroboscopici, contribuisce a creare un paesaggio audiovisivo all’interno del quale emerge e diventa palpabile l’ambivalenza di un’esperienza come quella del lutto. La performance diventa così un’opportunità di sperimentare un processo in cui l’alternanza e la sovrapposizione ritmica di parole, immagine e movimento crea i presupposti per un’esperienza collettiva sospesa e pervasa di mistero.

Se il punto di partenza del lavoro creativo di Waldvogel è, come abbiamo detto, il suo vissuto personale, il punto di arrivo si avvicina piuttosto a un’esperienza collettiva in cui il riferimento preciso al lutto si dilata lasciando spazio a sentimenti e sensazioni più difficili da circoscrivere: a un’impressione generica di disorientamento, di smarrimento, a una ricerca di senso durante la quale il vuoto e la stasi si trasformano, progressivamente, in movimento e in pienezza vitale. A contribuire all’ampliamento del campo percettivo, e alla polisemia che ne deriva, giocano un ruolo fondamentale tanto le immagini proiettate, quanto i paesaggi sonori che pervadono lo spazio.

La performance del collettivo Treppenwitz favorisce un ascolto attivo, prolungato e immersivo, incoraggiato anche dalla scelta di affidarsi, nella prima metà dello spettacolo, alla drone music. I droni (in italiano, chiamati anche bordoni) sono suoni lenti, ipnotici, prolungati e con apparentemente poche variazioni armoniche che, nella loro permanenza e lentezza, invitano all’ascolto. Si tratta di una gamma di suoni presenti anche in natura, che l’essere umano sin dall’antichità ha sfruttato per sostanziare esperienze contemplative come quelle dei canti buddhisti. Oggi i droni vengono ampiamente sfruttati nelle sperimentazioni musicali più varie: si possono trovare nella musica techno, nel jazz, nei Velvet Underground così come nel sitar di Ravi Shankar. Più recentemente questa sonorità ha dato luogo a un vero e proprio genere definito dalla critica in riferimento alla musicista Sarah Davachi, ai chitarristi Sunn O))), che lavorano essenzialmente di feedback o, ancora, all’organista Kali Malone.

Se le potenzialità della drone music vengono abilmente sfruttate nella prima parte di Surviving You, Always, negli ultimi venti minuti è tutto un un crescendo di suoni, di beats e di girandole luminose in cui è la musica techno a farla da padrone. Risvegliati da uno stato di ipnosi latente, gli spettatori si ritrovano di colpo avvolti da ritmi frenetici come se fossero in discoteca. Sono la felicità, la gioia, i battiti della vita (centoventi al minuto, come suggerisce il titolo di un film che evoca gli anni d’oro della musica techno) che tornano a pulsare febbrilmente dopo il disorientamento? È la memoria che risale dal passato e torna ad abitare i ritmi incalzanti del presente? Che dire di questo finale roboante in cui, nel frattempo, la scena si riempie di comparse che ballano come fossero a un rave party?

Facendo le dovute proporzioni, sembra di assistere a un film di Luca Guadagnino (Challengers, tanto per dirne uno) nel momento in cui, tutto a un tratto, la musica si diffonde prepotentemente sganciandosi dalla narrazione. Succede, peraltro, anche in Queer, l’ultimo film del regista italiano. Immaginate Daniel Craig nei panni di William Burroughs che, solitario, cammina nella sera messicana quando, d’un tratto, prima piano poi sempre più forte, imperversa Come as you are dei Nirvana; e il brano va avanti, ininterrotto, per tutti i suoi tre minuti e trentanove secondi. Senza tagli, senza interruzioni, senza abbassare il volume.

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