Alla vigilia dell’Inauguration Day del 47esimo presidente, si è avuta conferma dell’ottima salute dell’economia americana: più 256’000 nuove assunzioni a dicembre (al netto dei licenziamenti) e un’ulteriore diminuzione del tasso di disoccupazione (al 4,1% è uno dei più bassi del mondo). Nell’intero anno che si è appena chiuso i nuovi posti di lavoro creati sono stati 2,2 milioni. Un altro segnale positivo arriva su un terreno dove è meno scontato, quello della salute: la longevità degli americani (che aveva conosciuto un arretramento) ha ricominciato a crescere, nel 2024 si è aggiunto quasi un anno alla speranza di vita media, e la mortalità è scesa del 6%. Se questi dati vengono allineati ad altri, e osservati in un contesto mondiale, il verdetto s’impone: l’America è sempre il numero uno, addirittura per certi versi non è mai stata così forte, il suo modello trionfa su tutte le alternative.
Non si direbbe. Se l’America scoppia di salute qualcuno si è dimenticato di dirlo ai suoi abitanti? Gli americani sono in maggioranza scontenti, pessimisti, sfiduciati. I due terzi pensano che l’America è su una cattiva strada, il 70% pensa che la situazione economica sia negativa. La reputazione delle istituzioni è crollata ai minimi storici, solo il 20% degli americani ha fiducia nel proprio Governo (sono rilevazioni antecedenti alla vittoria di Donald Trump e indicano un trend di lungo periodo). Anche l’amore per il proprio Paese è in ritirata. Ancora un quarto di secolo fa, nel 2000, il 70% considerava importante il patriottismo, oggi solo il 38%. In quanto alle divisioni, sappiamo quanto la società e la politica americana siano divise. L’ultima elezione ha un po’ attenuato la polarizzazione – perché lo spostamento a destra ha investito ogni categoria, incluse minoranze etniche, donne, giovani, e anche gli Stati tradizionalmente più progressisti – però rimane un popolo di «separati in casa», con forti divergenze ideologiche, valoriali, politiche.
Ora uno studioso propone una tesi interessante per conciliare le due facce della medaglia. Superiorità americana e disordine interno sono collegati fra loro, si alimentano a vicenda. Non sono contraddizioni, bensì compongono il modus operandi di questa società e di questa Nazione. Questa argomentazione è di Michael Beckley, docente e ricercatore presso Tuft University, City College di New York, e American Enterprise Institute. La espone nei dettagli in un saggio che appare sull’ultimo numero di «Foreign Affairs», la più autorevole rivista di geopolitica. In breve, dovremmo smetterla di parlare di un declino americano aggrappandoci a questo o quel sintomo superficiale. L’America è la più forte «perché» è divisa, in un certo senso; ed è divisa al suo interno «perché» è la più forte. Per cominciare, qualche dato sulla superiorità americana. Quelli che usa Beckley peraltro rievocano alcune analisi che abbiamo già incontrato di recente nel Rapporto Draghi.
Gli Stati Uniti non solo mantengono l’economia più forte del pianeta, ma con il loro 26% del Pil globale hanno la stessa posizione che occupavano all’inizio degli anni Novanta, cioè in quella che fu definita la «fase unipolare» (l’Unione sovietica si era disgregata, la Cina era ancora agli albori del suo sviluppo). Nel 2008 le economie degli Stati Uniti e dell’Eurozona si equivalevano, oggi quella americana vale il doppio. Vale anche il 30% in più di tutto il Grande Sud globale messo assieme (cioè i Paesi emergenti dall’Asia all’Africa al Sudamerica, salvo la Cina). Perfino la Cina si sta rimpicciolendo rispetto agli Usa, e questo divario nei risultati viene sottolineato dal comportamento degli stessi cinesi: spostano all’estero (in dollari) centinaia di miliardi di risparmi; ed emigrano verso gli Stati Uniti in misura crescente. In Giappone, Germania, Francia, Inghilterra, Italia, i salari operai sono molto più bassi che nel più povero degli Stati Usa, il Mississippi.
L’immagine stereotipata per cui l’America è il paradiso dei ricchi, il Far West del capitalismo selvaggio, il Paese delle diseguaglianze estreme, è rassicurante per gli europei che vogliono cullarsi in una superiorità illusoria. Ma è negazionismo allo stato puro. Nell’ultimo trentennio gli Stati Uniti hanno aumentato i redditi più bassi in misura superiore alla media: il 20% degli americani più poveri ha avuto un aumento del 74% nei redditi (contro 55% per la media). Questa tendenza si è perfino accentuata negli ultimi anni. Dal 2019 ad oggi i salari delle categorie meno qualificate, operai e simili, sono quelli che hanno avuto la crescita più dinamica: dieci volte superiore agli stipendi della fascia più elevata. Sono dati stupefacenti per i «negazionisti» europei, in realtà spiegano perché l’America ha continuato e continua ad esercitare un’attrazione irresistibile e nei flussi migratori in entrata figurano tutte le nazionalità del pianeta (europei inclusi).
L’economia americana ha i suoi problemi, anche grossi. Il debito totale – sommando com’è giusto fare quello pubblico e quelli privati – raggiunge il 255% del Pil. Ma quello della Cina è al 300%. E la Cina non ha una moneta che tutti gli altri vogliono. A questo proposito: di un declino del dollaro si parla dagli anni Sessanta, e il frastuono su questo tema si accentuò dopo la crisi finanziaria del 2008. Eppure il dollaro continua a rappresentare il 60% delle riserve valutarie detenute dalle banche centrali di tutti gli altri Paesi, lo stesso livello del 1995. Viene usato nel 90% delle transazioni commerciali planetarie e nel 70% delle operazioni finanziarie di tutto il mondo. Alla supremazia monetaria si affianca quella energetica. Ai tempi in cui era presidente Jimmy Carter, l’America era il più grande importatore mondiale di energia (e questo la rese vulnerabile agli shock petroliferi degli anni Settanta). Oggi ha conquistato l’autosufficienza energetica, ha sorpassato Russia e Arabia saudita nella produzione di petrolio e gas; al tempo stesso ha investito fortemente nelle energie rinnovabili e le sue emissioni carboniche pro capite sono scese a livelli equivalenti a 110 anni fa. La sua superiorità più visibile è un’altra ancora, si manifesta nell’innovazione. Le aziende americane generano il 50% dei profitti mondiali del settore tecnologico, quelle cinesi il 6%.
Eppure Xi Jinping e Vladimir Putin parlano spesso di un declino americano. Sarà propaganda per distogliere l’attenzione dei loro popoli dai fallimenti delle autocrazie. Ma anche molti europei pensano che quest’America sia malata. E all’interno degli Stati Uniti, come si è visto, l’opinione pubblica è in preda a sentimenti negativi. Che gliene importa, d’altronde, di essere i primi della classe? Se sono convinti che il loro Paese sia in crisi, non li consola sapere che è molto più ricco e dinamico dell’Europa o della Cina. Le crisi interne dell’America però sono state ben più gravi in passato, e sempre seguite da altrettante rinascite: dopo la guerra civile, la Ricostruzione; dopo la Grande Depressione, la vittoria nella Seconda guerra mondiale e un periodo di egemonia; dopo le batoste in Vietnam o in Iran, la vittoria nella guerra fredda contro l’Urss e il primo di una serie di boom tecnologici. Un’interconnessione lega le forze dell’America alla sua ciclica instabilità, turbolenza interna. Questa Nazione è condizionata da alcuni elementi strutturali – la posizione geografica la isola e la protegge; la demografia positiva ne fa un’eccezione in un mondo in decrescita – i quali però alimentano un senso di sicurezza e autosufficienza che può generare errori politici.