«Attenzione. Foche. Siete pregati di tenere sotto controllo i cani per evitare che gli possa succedere qualcosa di spiacevole». Con un understatement squisitamente british il cartello annuncia la Forvie National Nature Reserve, uno dei sistemi di dune più intatti del Regno Unito affollato di foche che gattonano e rumoreggiano al sole sull’ultima ansa del fiume Ythan prima di sciogliersi nell’Atlantico.
Sabbia, sole e foche. Un’immagine lontana dagli stereotipi scozzesi di brughiere e castelli: l’Aberdeenshire sembra fatto per smentire i luoghi comuni con sorprese che insidiano persino la celebrata costa occidentale, e maree che ogni giorno inventano isole e canali tra lunghe spiagge e strapiombi. Non mancano neppure vecchi hotel fanés al punto giusto, dove i fishing books raccolgono entusiasti commenti che parlano di «graziosi salmoni» appena pescati. Fuori, un raggio di sole basta a dare il senso a un’intera giornata, accendendo improvvisamente di sfumature cieli imbottiti di nuvole basse e illuminando il verde dei prati mentre le onde si trasformano in una nebbia luminosa.
Grotte marine, Pennan e la Drum House
Ai Bullers of Buchan l’Atlantico ha scolpito uno scenografico arco naturale popolato di uccelli abituati a una vita in verticale che dà un senso alle esistenze di compassati birdwatchers, accompagnati da famiglie rassegnate che congelano al vento in attesa di qualche miracolosa rarità ornitologica.
In fondo a una baia, un tappeto setoso di spuma scivola sulle onde fino a lambire un’infilata di cottage rigorosamente bianchi accucciati ai piedi di prati che precipitano sulle scogliere. È Pennan, una location cult dai tempi di Local Hero, divertente film degli anni Ottanta in cui Burt Lancaster gigioneggiava nel ruolo di uno stravagante petroliere texano che voleva comprare il villaggio per costruirci una raffineria, per poi rinunciare grazie alla resistenza di un abitante ostinatamente deciso a non rifarsi la vita altrove. Tutta un’altra storia dalle pompose architetture georgiane della vicina Banff, famosa per i suoi green amati dai golfisti e le collezioni d’arte della Drum House, sede distaccata della National Gallery of Scotland. Un edificio imponente dalla storia architettonica a dir poco tormentata, furibonde diatribe incluse fra architetto e committente, Lord William Braco che nel 1730, stufo delle spese vertiginose necessarie a completare l’edificio, si rifiutava persino di guardarlo, abbassando le tendine della carrozza ogni volta che era costretto a passarci davanti.
I castelli di Slains e Dunnottar
Gli appassionati di atmosfere dark e decadenti compiono invece solitari pellegrinaggi fino alle rovine neogotiche di un inquietante scheletro di pietra che emerge da ciuffi d’erba verde smeraldo, Slains Castle scoperchiato dall’ultimo proprietario nel 1925 per non pagare le tasse. Non manca neppure uno stecchito pennuto, appena schiantato davanti all’ingresso, per contribuire a un’atmosfera così sottilmente angosciosa da avere ispirato uno degli ospiti più famosi del castello, lo scrittore Bram Stoker, per il suo Dracula. Molto più romantiche, le rovine di Dunnottar Castle sono letteralmente incastrate su un teatrale cubo di roccia circondato dal mare e illuminato dall’ultimo sole, una location perfetta per l’Amleto di Zeffirelli ma anche per Game of Thrones.
Probabilmente le sue mura sbrecciate da secoli di cannonate, vento e tempeste non hanno fatto una piega di fronte al nevrotico agitarsi delle troupes, con le loro pietre slabbrate abituate alle tragedie seriali di molti protagonisti della storia scozzese, da William Wallace ormai irrimediabilmente inchiodato come icona di Braveheart all’infelice Maria Stuart. Fu l’ultimo castello ad arrendersi nel 1652, dopo otto mesi di resistenza, alle truppe di Cromwell che cercavano i gioielli della corona scozzese e l’archivio di re Carlo II, ma i primi erano stati saggiamente nascosti sotto un pavimento e i documenti erano usciti dal castello sotto le gonne di una donna del vicino villaggio. Nella vicina Stonehaven invece rischiano grosso gli eventuali diavoli di passaggio nella notte di Capodanno, quando gli spiriti maligni vengono cacciati a colpi di Fireballs, le «Palle di Fuoco», micidiali contenitori metallici pieni di materiali in fiamme fatti pericolosamente ondeggiare sulla folla da scatenati interpreti di una tradizione dura a morire.
Sferzate di vento
Fari e castelli sgranati lungo la costa più orientale della Scozia punteggiano promontori come Kinnaird Head che vanta i venti più forti della Gran Bretagna con una rispettabile punta di circa 225 chilometri orari registrata nel 1989. Un primato non da poco persino qui, fronteggiato con successo dalla massiccia mole quadrata di Kinnaird Castle, il più antico faro scozzese costruito nel XVI secolo ma perfettamente funzionante fino al 1991, quando l’ultimo guardiano se ne andò per sempre.
All’interno, un museo raccoglie giganteschi prismi recuperati da fari in disuso e il racconto dell’epopea della più famosa dinastia di costruttori di fari scozzesi, realizzati in condizioni spesso impossibili da ben cinque generazioni di Stevenson fra cui il padre dello scrittore Robert. Testimonianze e oggetti rivelano storie e leggende di una specie umana quasi estinta, i guardiani dei fari capaci di sopravvivere ai lunghi inverni di una delle coste più ostili del mondo. Controllando e alimentando ogni notte quel raggio di luce che salvava vite e mercanzie per uno stipendio di uno scellino per notte e il foraggio per allevare una vacca. Senza mai dimenticarsi un accessorio a prima vista indefinibile ma fondamentale, lo stiracravatta di legno perché – anche se in capo al mondo – il guardiano sorpreso con una cravatta stropicciata in caso di ispezione o, Dio non voglia, di arrivo improvviso dello yacht reale Britannia perdeva il posto.
Nella terra dei pescatori
Lungo questi porti, dove anche l’aria sa di pesce, le tute da pescatore sventolano come insegne araldiche di famiglia davanti alle case, da Fraserburgh a Peterhead dove giganteschi pescherecci che sembrano quinte mobili di ferro colorato fanno girare svariate decine di milioni di euro all’anno. «Non è più come una volta» sospira Jacqueline Yule proprietaria con il marito del più antico affumicatoio scozzese, la Ugie Salmon Fish House dove da oltre quattro secoli nessuno mette in discussione i metodi tradizionali di affumicatura con il legno di quercia. «Oggi a Peterhead c’è ancora molto pesce ma parecchi hanno venduto le loro barche per lavorare nell’industria petrolifera, soprattutto sulle navi rifornimento, anche se magari rimpiangono la vita di prima perché un pescatore sarà sempre un pescatore». I pescherecci li vedi ancora, ma sempre più spesso fermi nei porti perché anche l’illusione della Brexit ha tradito questa gente sottraendo pesce, soldi e lavoro.
La Città della Rosa
Il petrolio invece lo puoi solo intuire perché le piattaforme sono oltre l’orizzonte, disseminate nel mare del Nord, ma l’incessante rombo degli elicotteri che trasportano il personale annuncia Aberdeen già a molti chilometri di distanza. Una città che «si detesta come un innamorato respinto odia la persona amata», un’alternativa secca di odio o amore lapidariamente riassunta dal romanziere Lewis Grassic Gibbon nativo di queste parti. Non aiutano un’austera grisaglia architettonica impregnata di un clima decisamente atlantico in una latitudine a nord di Mosca.
Così, per addolcire le infinite sfumature di grigio della terza città scozzese, l’ufficio del turismo l’ha ribattezzata Città della Rosa seminando tra parchi e rotatorie oltre due milioni di rose e dieci di giunchiglie che le hanno fatto vincere più volte l’ambito titolo di Britain in Bloom, (Gran Bretagna in fiore). Tutto nell’impossibile tentativo di far dimenticare il soprannome di «Città di granito» affibbiatole da sempre. Del resto, per sfuggire a un destino apparentemente segnato già nel XII secolo, l’antica Aberdon si era inventata un destino commerciale e peschereccio, inframezzato da innumerevoli guerre e ribellioni contro i soliti inglesi. Rifugio del re scozzese Robert Bruce, piazzaforte strategica di Edoardo I d’Inghilterra, liberata dagli abitanti in una notte del 1306 massacrando, tanto per non sbagliare, la guarnigione inglese, contraccambiati da Edoardo III che nel 1337 distrusse l’intera città.
Giacimenti di petrolio
Unico punto fisso nei secoli il rapporto costante e indissolubile con il mare, rinsaldato dal boom petrolifero nel Mare del Nord. Un’epopea che qui chiamano lo «spirito del Klondike» quando con la scoperta dei giacimenti offshore arrivarono i texani che ritrovi nelle nostalgiche fotografie piene di cappelli da cowboy del Museo Marittimo, un inno all’industria petrolifera completo di riproduzione in scala ridotta di una piattaforma. Sembra quasi una rivisitazione dell’immaginario western, dove all’immagine dell’arrivo in città di mandrie e avventurieri basta sostituire quella degli operai che scendono da elicotteri e navi appoggio. Una vera e propria età dell’oro che raggiunse il suo culmine a metà degli anni Ottanta con una produzione di 2,6 milioni di barili al giorno.
La prima devastante frenata arrivò nel 1986 quando il prezzo del barile crollò a dieci dollari e Aberdeen perse un migliaio di posti di lavoro al mese. Due anni dopo l’incendio della piattaforma Piper Alpha, e 167 morti, costrinsero Governo e industria petrolifera a cambiare in modo radicale le regole di sicurezza. Nel frattempo, compassati manager avevano sostituito i pionieri delle trivelle ma il gergo petrolifero yankee era entrato per sempre nel patrimonio locale.
Da allora il porto nel cuore della città è sempre affollato di coloratissime navi rifornimento che fanno ogni giorno la spola con le piattaforme, cambiando i connotati di una città che in percentuale ha più miliardari di Londra. Superando persino i fasti del diciannovesimo secolo, testimoniati da un’imponente architettura classica e neogotica che celebra i successi di una borghesia che aveva dato all’impero britannico la supremazia mondiale nel commercio del tè cinese grazie ai mitici clipper, i velocissimi velieri costruiti nei cantieri navali locali.
La città perduta
Della vecchia Aberdon rimangono le torri della cattedrale di San Machair che emergono tra gli alberi e le lapidi di un cimitero nascosto fra gli alberi. Ultime testimonianze di una chiesa fondata nel 580 d.C. lungo il fiume Don seguendo il consiglio del monaco irlandese San Columba che, secondo un’antica cronaca, aveva suggerito al suo discepolo Machair di costruire un luogo di culto dove l’ansa di un fiume ricalcasse la forma di un bastone vescovile. Intorno si estende una lost city, una «città perduta» come la chiamano nostalgicamente in molti, di romantiche casette e stradine lastricate tra cui torreggiano gli edifici del King’s College fondato nel 1495. Una perfetta camera di compensazione tra la frenetica Aberdeen e le rilassate atmosfere da capsula del tempo dei villaggi dell’Aberdeenshire.
D’altronde anche prima dei clipper e del petrolio questo mondo di porti stipati di scafi neri, il colore quasi d’obbligo dei pescherecci scozzesi, ha sempre saputo ritagliarsi un ruolo da protagonista, in un continuo scambio di ruoli con il granito di Aberdeen.