È trascorsa solo una settimana dall’entrata in vigore della fragile tregua tra Israele e Hamas e dagli scambi iniziali di ostaggi e prigionieri, e le incognite non fanno che aumentare minando la possibilità che la seconda parte dell’accordo possa venire rispettata secondo i termini previsti. Il premier Benjamin Netanyahu subisce le pressioni dei partiti sionisti religiosi che minacciano di dimettersi se la guerra a Gaza non verrà ripresa a breve, mentre festeggiano le dimissioni rassegnate dal capo di Stato maggiore, il generale Herzi Halevi, da loro considerato troppo morbido e responsabile di non aver annientato Hamas. Quest’ultimo, del resto, ha colto l’occasione del rilascio di Emily Damari, Doron Steinbrecher e Romi Gonen, il 19 gennaio, per offrire al mondo uno spettacolo mediatico di forza dal messaggio inequivocabile. Le tre giovani sono infatti salite sul mezzo della Croce Rossa che le attendeva, circondate da decine di miliziani armati con il volto coperto e, per quanto la speranza è che si tratti di propaganda, il tempo sembrava essersi fermato il 7 ottobre e il timore che i prigionieri rilasciati dalle carceri israeliane vadano a ingrossare le fila dell’organizzazione ha sfiorato la mente di tutti.
Del resto si tratta di un paradosso, dal momento che il Governo israeliano continua a rinforzare Hamas riconfermandolo come unico interlocutore e ignorando l’Autorità nazionale palestinese nonché la possibilità di altre reggenze nella Striscia di Gaza. Prosegue anche l’implementazione della riforma che mira di indebolire il potere giudiziario e persino l’ordine degli avvocati, mentre la tensione in Cisgiordania è alle stelle a causa della nuova operazione «Muro di ferro» condotta dalle Forze di difesa israeliane e della liberazione dei coloni in detenzione amministrativa, che possono così tornare indisturbati a «pogromizzare» i palestinesi della regione. Gli attentati palestinesi si moltiplicano, soprattutto a Tel Aviv, e affinché la tregua e l’accordo rimangano in vigore come stabilito, alle famiglie degli ostaggi ancora prigionieri a Gaza non resta che riporre le speranze nell’imprevedibile Donald Trump e nella sua influenza su Netanyahu e Hamas. Risulta difficile, infatti, attribuire la liberazione dei primi ostaggi all’imponente movimento di protesta dei civili israeliani che prosegue ormai da due anni, o alla pressione miliare esercitata dall’esercito. Mentre è verosimile che l’insediamento del nuovo presidente Usa costituisca un incentivo o forse un imperativo che non lascia altra scelta, anche nell’ottica dei cambiamenti in atto nella regione e delle aspirazioni intorno al consolidamento degli Accordi di Abramo.
Nel frattempo i media israeliani main stream, concentrati sulle famiglie degli ostaggi liberati e su quelle in attesa, cercano maldestramente di restituire dignità al contratto sociale nel tentativo di ripristinare l’etica violata. Tra gli eroi di questa attesa estenuante emerge l’attivista Einav Zangauker, mamma dell’ostaggio Matan, denominata «la leonessa» e inserita dalla «BBC» tra le 100 donne più influenti del 2024. Anche negli ultimi giorni Zangauker non ha esitato ad accusare il premier Netanyahu di agire ricattato da fantasie messianiche sulla colonizzazione di Gaza, chiedendo l’appoggio della popolazione civile affinché continui a manifestare al suo fianco fino alla fine: «Da qui in poi la lotta si intensificherà, perché finché il primo ministro che ha affossato e sventato gli accordi continuerà a minacciare di tornare a combattere e a non porre fine alla guerra, nessuno garantisce che tutti gli ostaggi rimasti indietro torneranno».
Ma se il riscatto degli ostaggi, quale che sia il prezzo da pagare, è il primo passo per restaurare l’umanità perduta, la strada per il riconoscimento del dolore altrui in Israele sembra ancora lunga e la popolazione continua a confrontarsi anche con una crisi interna che contrappone le fazioni ebraiche esasperando insofferenze e rancori. In questo baratro le accuse di genocidio che provengono dall’estero e i tentativi degli storici, anche di quelli israeliani come Amos Golberg, di definire gli eventi in corso secondo categorie note in letteratura, sembrano cadere nel vuoto del caos e della tensione in cui versa lo Stato ebraico. Da qui anche il crescente imbarazzo con il quale ci si accosterà alla Giornata della memoria oggi, 27 gennaio, le cui commemorazioni stridono di fronte alle cifre imbarazzanti dei morti di Gaza senza nome, ma anche di fronte all’antisemitismo di ritorno che, seppure troppo spesso confuso con la legittima critica nei confronti del Governo israeliano, è tornato in voga. Sensi di colpa e confusione regnano sovrani e così le dicotomie superficiali che persistono nel vedere Israele come baluardo in Medioriente contrapposto al fondamentalismo islamico che minaccia il mondo occidentale.
L’Europa potrebbe intervenire condannando le politiche di Israele quando serve, nonché assumendosi la responsabilità dell’antisemitismo e dell’islamofobia che la infestano. Potrebbe proporre agli studenti nuovi approcci di didattica della Shoah che tengano conto anche dei traumi altrui pur nel rispetto delle ovvie asimmetrie. Invece la menzione della Shoah accostata ad altri eventi traumatici come la Nakba palestinese continua a suscitare disagio anche a causa della feroce opposizione e del profondo risentimento manifestati da parte di ebrei e israeliani. Eppure l’interconnessione storica degli eventi è innegabile, come ricorda lo storico Alon Confino che, nel capitolo VI del volume Olocausto e Nakba. Narrazioni tra storia e trauma, curato dai ricercatori palestinese e israeliano Bashir e Golberg, presenta la storia di Genya e Henryk Kowalski. Sopravvissuti all’Olocausto, i coniugi Kowalski arrivarono in Palestina dove nel 1949 ricevettero dall’Agenzia ebraica la chiave di un appartamento a Giaffa la cui popolazione araba era per la maggior parte fuggita o era stata cacciata fuori durante la guerra del 1948. I Kowalski arrivarono all’appartamento ma, come raccontò Genya decenni dopo in una video installazione, «non entrammo nemmeno in casa perché nel cortile c’era una tavola rotonda imbandita di piatti, e non appena abbiamo visto questo (…) ci siamo spaventati. Ci ha ricordato come dovevamo lasciare la casa e tutto alle spalle quando sono arrivati i tedeschi e ci hanno buttato nel ghetto. (…) Non volevo fare la stessa cosa che hanno fatto i tedeschi. Abbiamo lasciato e restituito la chiave». Una reazione tanto rara, quanto umana nella sua naturalezza. Arendt ha parlato della banalità del male, ma in questo momento storico dobbiamo piuttosto appellarci a quella del bene e sperare che nonostante tutto abbia presto la meglio.