Immagini di backstage durante le riprese nella cucina dell’Osteria all’undici; al centro Filippo Demarchi con due colleghi di lavoro (Picfilm e RSI)

Il viaggio di rinascita di Filippo Demarchi

by Claudia

La prima impressione che si ha quando si guarda Osteria all’undici (Picfilm e RSI) – presentato sabato in prima mondiale alle 60esime Giornate di Soletta, e prossimamente in TV – è quella di un film sincero e dove non si vuole spingere l’acceleratore sulla spettacolarizzazione e la drammatizzazione. Infatti, l’ultimo lavoro del locarnese Filippo Demarchi punta parecchio sulla normalizzazione di un problema (la sindrome da burnout) e sul conseguente percorso di recupero.

Si tratta di un autoritratto in cui l’autore, in un momento delicato e successivo a un ricovero in una clinica, si confronta con il lavoro di regista, con le proprie paure e le proprie aspirazioni. L’opera si colloca tra il film autobiografico e la docu-fiction, e chiede agli spettatori di immergersi nel mondo interiore del protagonista. La narrazione si snoda tra passato (il racconto del burnout e del soggiorno in clinica) e futuro (il film che vuole realizzare e che inizia a scrivere), mentre Filippo cerca di reintegrarsi professionalmente affrontando alcuni colloqui di lavoro, fino a trovare un’occupazione a metà tempo come receptionist all’Ostello della Gioventù di Locarno.

Ambientato tra casa sua a Minusio e il luogo di lavoro a Bellinzona, il documentario – oltre al percorso personale – racconta anche i disturbi psichici e le storie molto personali di alcuni colleghi che lavorano con lui all’Osteria.

Come evidenzia lo stesso Demarchi «ogni ritratto è un incontro; ogni storia ha il proprio spazio e trova punti comuni con le altre. Alcuni desiderano emanciparsi da un’etichetta che li cataloga come persone con un disagio psichico e senza possibilità di un lavoro stabile. Tuttavia, ci sono anche altre persone che trovano soddisfazione e sicurezza nel lavorare in un laboratorio protetto come quello dell’Osteria all’undici. La mia intenzione era proprio quella di raccontarle, senza pregiudizi né moralismi».

E infatti è questo uno dei pericoli che poteva correre il film di Demarchi; restare impigliato nelle reti della facile retorica pietista. Per fortuna riesce a schivare l’ostacolo, anche se il tema è stato affrontato durante la lavorazione del film. «All’inizio le note del violoncello di Zeno Gabaglio erano più enfatiche e l’effetto che ne scaturiva non mi convinceva, così ne abbiamo parlato e abbiamo calmato i toni, in modo da essere più asciutti per raccontare quelle storie in modo più neutro. Non volevo assolutamente drammatizzare le emozioni, ma filmare il mio percorso, senza spettacolarizzarlo. Il mio scopo era quello di porre l’accento sugli scambi di esperienza tra colleghi di lavoro. In definitiva, preferisco il naturalismo e il realismo all’enfasi. Sia le musiche sia gli effetti scenici sono quindi andati in questa direzione. Non volevo lanciare fuochi d’artificio, ma cercare di descrivere alcune storie come la mia».

Il documentario di Demarchi è interessante anche perché, durante il suo burnout, quando si era auto isolato dal mondo, era riuscito a filmarsi. Una lucidità artistica, sicuramente non scontata né ovvia, che ha contribuito a rendere più reali le situazioni che descrive a posteriori e durante il percorso di recupero. «Devo ammettere – sottolinea Demarchi – che ci sono stati dei momenti di conflitto interno non semplici da superare. Non ero completamente convinto di raccontare alcuni aspetti difficili di quei momenti, ma il regista che è in me mi spingeva verso la massima trasparenza e a mettere sul tavolo tutte le fragilità vissute; mi ha spinto a non restare troppo in superficie e a essere anche spigoloso nel racconto. Il tutto per offrire allo spettatore un numero di elementi sufficienti per capire meglio la complessità della vicenda che ho vissuto. Inoltre, ho usato anche alcuni pensieri che ho annotato durante la convalescenza e mi hanno aiutato a ricordare quei momenti delicati».

Importanti e presenti ne L’Osteria all’undici sono state le letture fatte in quei mesi di isolamento. Lo afferma lo stesso Demarchi durante il filmato. Ha infatti letto, più volte, alcuni libri come L’ultimo giorno di un condannato a morte di Victor Hugo e Tous les hommes n’habitent pas le monde de la même façon di Jean-Paul Dubois. «Entrambi parlano di redenzione e descrivono un crollo che avviene nella vita di una persona e la sua rinascita. Uno scoppio improvviso che ti fa andare in fondo a un buco nero, ma che poi ti permette anche di ritrovare un nuovo equilibrio per reintegrarti nella società. Mi ci sono ritrovato perché anche io, come i personaggi di quei libri, ho dovuto intraprendere quel percorso».

Così come fondamentali sono stati gli scambi avuti con gli amici e soprattutto con il direttore della fotografia Nikita Merlini. «Abbiamo avuto un continuo scambio di pareri sulle varie scene e le abbiamo costruite in modo semplice e cercando di essere il più neutri e naturali possibili nel filmarle. Per esempio, quando i colleghi raccontano la loro esperienza abbiamo usato i classici campo-controcampo con alcuni piani d’ascolto e mantenendo l’attenzione sulle loro storie. Anche durante il montaggio, insieme a Davide Briccola, abbiamo tenuto buona parte di quanto avevamo filmato perché le scene le avevamo preparate in anticipo, e spesso ci siamo resi conto che la prima versione del girato era più vera e spontanea delle seguenti».

Il tutto a confermare la prima impressione avuta da L’Osteria all’undici; un filmato autentico che usa toni tranquilli e pacati per descrivere alcuni percorsi di rinascita.

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