La gloria angelica di Lomazzo

by Claudia

L’umiltà del cotto romanico lombardo delle chiesette in disparte, spesso inatteso o agguantato di sfuggita, da sempre, in mezzo al caos milanese, mi consola. La ritrosìa, inoltre, di questo cotto metropolitano situato in arretrato rispetto alla strada, lascia lo spazio di movimento necessario, senza imposizioni di grande bellezza o molta bruttezza che ti si parano davanti, per andargli incontro con gli occhi e accoglierlo anche nel cuore. A passi sincopati, sul sagrato in ciottoli di fiume, assaporo dunque l’umiltà rosso mattone della facciata, seppure rimaneggiata con rosone neogotico da Maciachini – l’architetto del cimitero monumentale già incrociato sul nostro cammino – della chiesa di San Marco. In controcampo, oltre i platani e le macchine, c’è un palazzo di Magistretti – autore delle lampade Atollo ed Eclisse – del 1971 che s’intona, rispettando i due colori preesistenti (il rosso mattone e il bianco del portale marmoreo e delle lesene), alla chiesa fondata nel 1254 dove ora entro. Magra consolazione Magistretti in tinta, visto che fino agli anni trenta, in faccia alla chiesa dedicata al santo lagunare, c’era un naviglio omonimo che formava persino, poco più avanti, un laghetto.

La gloria angelica, subito a destra appena entrato, lassù nel catino absidale in fondo alla cappella Foppa, dipinta tutta nel 1571 da Giovan Paolo Lomazzo (1538-1592), ultima opera prima di diventare cieco a trentatré anni e divenire grandioso trattatista e poeta, già si annuncia coloratissima e turbinosa. La luce, verso le tre meno un quarto di un pomeriggio a fine gennaio con cielo azzurro, penetra dalle finestrelle-oblò. Oltre il cancello in ferro battuto nero, sotto la volta con profeti e sibille che precede il catino absidale, ecco altra luce piombare zenitale da un foro-ottagono e diffondersi propizia. L’altro giorno invece, al mattino, con cielo grigio, non era il massimo e un visitatore cercava invano, tastando le mura, l’interruttore.

Stupisce, sulla sinistra, l’affresco-trompe-l’oeil con la caduta di Simon Mago come se fosse caduto dal buco ottagonale allo zenit della cupola e i moti di spirito leonardeschi degli spettatori. Afferro l’utilizzo, qua e là, di un curioso turchino lattementa. Però è alzando gli occhi nel vortice absidale della gloria angelica, la vera emozione, lo smarrimento totale, il rapimento alieno. La prima piccola percezione corre, con uno sbalzo temporale, al miglior Severini vorticoso di La danse del pan-pan al Monico. Un’assonanza meno futurista ci porta, sempre con naso all’insù, al Concerto degli angeli (1535) di Gaudenzio Ferrari affrescato sulla cupola del Santuario della Beata Vergine dei Miracoli a Saronno. Non c’è gara però con il turbinare d’ali e drappi qui, un affollamento da stadio, galleggiante su una base di nubi plumbee e manieriste. Colgo ancora, vagando in giro con gli occhi, quel verde turchino lattementa che qui sembra oltremare o ogni tanto «verde di berildo» come lo indica Lomazzo stesso nella parte prodigiosa sui colori del Trattato dell’arte della pittura, scoltura et architettura (1584) che potrebbe forse riferirsi ai riflessi minerali e preziosi del berillo.

Attutite, entrano, a ravvivare il mio girotondo con sguardo in su, le sonorità del traffico che scorre su via Fatebenefratelli. Anche lì a fianco, un tempo, c’era un naviglio: dunque questa, dove nel 1874 si esegue per la prima volta la Messa da requiem di Verdi e Mozart quattordicenne un secolo prima suona l’organo, era quasi una chiesa acquea. Tenendo a bada il capogiro, catturo, nell’affresco ciclonico, un angelo a mani giunte: non in preghiera ma per spiccare un tuffo a testa, nel vuoto. Dal Lomazzo, il cui Autoritratto in veste di abate dell’Accademia della valle di Blenio (1568) – combriccola antiborromaica di artisti ispirata dai facchini bleniesi emigrati a Milano – potete vedere qui vicino, alla pinacoteca di Brera, dove sembra quasi un homus selvaticus alpino o uno spirito dei boschi con pelliccia di volpe, cappello bacchico da cui spiovono pampini e viticci, tirso avvolto da edera, sorriso elfico-beffardo, ci si può aspettare di tutto. Figura fuori dal comune per la sua epoca, dimenticato per secoli e riscoperto poi da Erwin Panofsky in Idea (1924), ispira infatti, attraverso i suoi Rabisch (1589), poesie-arabeschi in dialetto facchinesco ticinese, a Lainate, lo straordinario ninfeo.

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