C’era una volta l’Europa franco-tedesca. Centrata sul compromesso geopolitico fra le due storiche potenze continentali, variamente diminuite dalla guerra civile europea scandita nei due atti mondiali (1914-18 e 1939-45). Perno asimmetrico. La Francia, pur umiliata dalla Germania nel 1940, si era agganciata in extremis al carro del vincitore americano. Dotata di un impero coloniale, della bomba atomica e del senso della gloria. La Germania federale, ovvero occidentale, residuo del Reich, di fatto semiprotettorato americano compartecipato da britannici e statunitensi, era presto risalita al vertice economico europeo.
L’asse Parigi-Berlino era figlio di due progetti. Il principale, l’americano. Fondato sulla scelta di rimanere in Europa occidentale per impedire che cadesse in mani sovietiche ed esportasse il morbo comunista Oltreatlantico. Di qui Piano Marshall (1947) e Nato (1949). Il secondario, coltivato dai fondatori delle Comunità europee, progenitori dell’Unione europea attuale: De Gasperi, Schuman, Monnet, Adenauer, Spaak, il fior fiore del centrismo cristiano nel Vecchio Continente. Sotto forma europeista nasceva e si consolidava così in Europa occidentale, poi nel resto d’Europa dopo il crollo dell’Urss, l’impero europeo dell’America. Oggi espresso nella convergenza territoriale fra Nato e Ue, il cui ambito societario e territoriale è quasi identico. Che cosa ne resta, che cosa ne deriverà domani dopo la «cura Trump» che si annuncia radicale? Davvero l’Europa, come ha ammonito Zelensky a Davos il 21 gennaio, rischia di essere cancellata dalla storia? Se per Europa intendiamo l’Ue – in Svizzera la distinzione fra i due nomi è marcata, negli altri Paesi europei si usano i due termini quasi indistintamente – la risposta è scontata: no. No perché l’Ue è già fuori dalla storia, anche per sua scelta.
Se per soggetto storico s’intende un attore della scena internazionale, dunque uno Stato, l’Unione europea non lo è, non lo è mai stata e nemmeno ambisce a diventarlo. È uno strano animale, una peculiare organizzazione internazionale i cui 27 soci hanno accettato di cedere parte della loro sovranità in cambio di variabili forme di integrazione, tra cui la monetaria (per 20 di essi), ma non la militare né la fiscale. Su altri dossier decisivi, come le politiche migratorie, le differenze non potrebbero essere più marcate. Soprattutto, non si conosce crisi geopolitica, economica o sanitaria (Covid) su cui i membri dell’Ue abbiano parlato con una sola voce, per il semplice motivo che ne hanno 27. È dunque abbastanza interessante osservare come gli Stati europei stiano reagendo in ordine sparso all’avvento di Trump, il presidente americano meno interessato al Vecchio Continente che si conosca. Sintomo di sconcerto e di angoscia, cui Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, ha cercato di opporsi avvertendo: «Il mondo sta cambiando. Noi siamo pronti». A ben guardare, non è così.
L’approccio trumpiano è basato sulle sfere d’influenza. Per Washington l’Ue è la sua zona d’influenza europea in quanto braccio economico dell’alleanza militare, la Nato. Nel primo caso gli Stati Uniti si riservano un diritto di vigilanza, spesso imbastendo dure battaglie commerciali con la Commissione. La quale, presa dalla mania regolatrice, interviene per normare processi e dinamiche economiche commerciali in cui ormai gli europei sono retroguardia: dall’intelligenza artificiale (AI) ai social, dalle politiche ambientali allo strapotere di alcuni trust. Nel frattempo, il divario con Usa e Cina sulle dimensioni strategiche si è fatto incolmabile. Nello Spazio come nell’AI gli europei contano poco o nulla. Per esempio: non c’è concorrente europeo per Starlink, la rete satellitare di Musk, a meno di non considerare tale il progetto Iris, che dovrebbe mettere in orbita neanche 300 satelliti entro il 2035 quando SpaceX ne ha già lanciati quasi 7mila. Se poi osserviamo il campo AI, il quadro peggiora: su 100 brevetti, 62 sono americani, 21 cinesi, 2 europei.
Ma la spaccatura geopolitica è ancora più netta, accentuata dalla guerra in Ucraina. Qui si è formato un asse fra Regno Unito, Polonia, Paesi baltici e scandinavi, per i quali non si tratta di salvare l’Ucraina e nemmeno di battere la Russia, ma di distruggere ciò che resta dell’impero di Mosca. Gli altri Paesi, Francia, Germania e Italia incluse, già studiano come riallacciare i rapporti con il Cremlino, specie in campo energetico. Con Trump tutti i giochi sembrerebbero riaprirsi. In teoria. La sua America è concentrata sulla Cina e vuole chiudere i contenziosi europei e mediorientali il prima possibile per concentrarsi sulla competizione con il grande rivale. Questo apre due scenari per gli europei. Il primo, coalizzarsi per formare un nucleo di potere alleato degli americani ma capace di agire per i propri interessi. Il secondo, continuare a parlare del primo scenario senza muovere un dito per concretizzarlo. Indovinate come finirà?