Attraverso gli otto episodi finora proposti dalla RSI sotto il titolo Edizione straordinaria: quando la cronaca diventa storia, gli ideatori del programma, Lorenzo Mammone e Lorenzo Buccella, hanno presentato un’immagine del Ticino recente che merita una riflessione. Sulle prime ha prevalso lo stupore per eventi che il tempo si era incaricato di cancellare dalla memoria. Fatti di sangue, pluriomicidi, tentativi di evasione dal carcere finiti in tragedia, traffici loschi e giudici corrotti, trafugamento di materiale bellico dai depositi dell’esercito per armare le Brigate rosse, i profitti legati alla coltivazione della canapa… Frammenti di una storia criminale che gettava sul Cantone una luce livida, da provincia sudamericana. Era proprio così il Ticino di quegli anni, un’appendice mafiosa, una zona franca in cui prosperavano operazioni illegali e un’estesa «economia grigia» in cui mettere a frutto i capitali in fuga dal fisco italiano?
Certamente allineare in rapida successione tutto questo sottobosco poteva ingenerare nei telespettatori l’idea che il Paese si fosse incamminato sulla via della perdizione, con ripercussioni che intaccavano la sua onorabilità anche sul piano dell’etica pubblica. In realtà tutto questo avvenne sull’arco di un trentennio, dagli anni Settanta del Novecento al principio del nuovo secolo. Era la fase in cui il Cantone si stava riprendendo dopo la crisi petrolifera che aveva investito tutto l’Occidente produttivo nel 1974, cercando di cavalcare il ciclo della ripresa dei successivi anni Ottanta. Nel 1985 apparve un libro che proponeva una prima radiografia di questa faticosa rinascita: Un paese che cambia, raccolta di saggi curata dall’economista Basilio M. Biucchi (Dadò editore). L’opera metteva in luce gli innegabili progressi compiuti nel secondo dopoguerra, il balzo demografico, l’espansione del settore terziario, i benefici della riforma scolastica (scuola media). Ma nel contempo faceva emergere anche i risvolti negativi, le storture, le tare di una crescita disordinata che era sfuggita di mano, come il controllo delle risorse idriche, il saccheggio speculativo del territorio, la dipendenza da centrali di potere situate altrove, soprattutto nell’area zurighese.
La questione riguardava anche la mentalità o, come si diceva una volta, l’«indole» degli abitanti. Buona parte di questi si era infatti convinta che per arricchirsi conveniva infilarsi nelle nicchie che la legislazione lasciava aperte, su entrambi i lati della frontiera. Gli affari più redditizi provenivano dal riciclaggio di capitali, un fiume di denaro che poi tracimava in altri alvei dell’economia grigia, come la prostituzione, i bordelli, i cinema a luci rosse, la vendita e il consumo di droga. Un mercato in cui la criminalità organizzata aveva piazzato le sue pedine, in modo discreto, dietro il paravento di società rispettabili e di esercizi commerciali.
Per completare il quadro bisognerebbe poi considerare le relazioni con la politica, i partiti, le associazioni di categoria che chiusero gli occhi o assecondarono questa deriva. È un intreccio che rimane da indagare. Pensiamo all’euforia per il gioco d’azzardo e per l’intenzione di trasformare il Ticino in un unico grande casinò, con palazzi luccicanti distribuiti in tutti i principali centri; oppure agli interessi legati allo smaltimento dei rifiuti, che si tradusse in contenziosi infiniti e con progetti che si rivelarono equivoci e alla fine fallimentari (caso Thermoselect). In tutto questo svolse un ruolo di primo piano la Lega dei ticinesi, movimento e poi partito che prometteva di fare piazza pulita: combattere la «banditocrazia», limitare lo strapotere delle «grandi famiglie e i loro vassalli», consegnare agli archivi «il regime dei landfogti» (primo editoriale del «Mattino della Domenica», 11 novembre 1990). Terra di mezzo tra la «Greater Zurich Area» e la metropoli milanese, il Ticino sa che la sua posizione strategica è all’origine di opportunità come pure di rischi; è fonte di iniziative imprenditoriali sane e di tecnologie innovative come pure di operazioni speculative opache. Troppo spesso l’economia della rendita ha avuto la meglio sulla cultura d’impresa fondata sulla produzione di beni e servizi reali. Ora è il turno delle criptovalute, chissà in quale regno benedetto dagli dèi ci condurranno.