Il cinema elvetico ha dimostrato più volte grande attenzione alle storie legate alla ex-Jugoslavia, alla sua dissoluzione e alle sue guerre, e agli emigrati che spesso hanno trovato rifugio e accoglienza in Svizzera. Esempi ne sono tre pellicole ormai classiche di inizio millennio come Oltre il confine (2002) di Rolando Colla, Tout un hiver sans feu (2005) di Greg Zglinski e Das Fräulein (2006) di Andrea Staka oltre ai documentari Chris The Swiss di Anja Kofmel e Hotel Jugoslavija di Nicolas Wagnières.
Ad arricchire il filone si aggiunge il titolo di maggior spicco della rappresentanza ticinese alle 60esime Giornate cinematografiche di Soletta, in corso fino a mercoledì. Si tratta de Il ragazzo della Drina di Zijad Ibrahimović, prodotto da Rough Cat di Nicola Bernasconi e prossimamente distribuito in sala da Noha Film. L’opera è inserita tra le sei in concorso per il Premio Soletta, comprendente quattro documentari e due di finzione, ed è stata proiettata in prima assoluta sabato, mentre una replica è in calendario domani pomeriggio.
L’opera affronta direttamente uno dei più grandi traumi della storia europea recente, il massacro di Srebrenica: l’11 luglio 1995 più di ottomila musulmani furono assassinati dai soldati serbo-bosniaci agli ordini del generale Ratko Mladić. Tra i morti ci fu anche il padre di Irvin Mujcić, il «ragazzo» del titolo, il cui cadavere non è mai stato ritrovato. Mentre nell’aprile 1992, agli inizi del conflitto, moglie e figli piccoli lasciavano la città della Bosnia orientale che stava per cadere nelle mani degli aggressori, l’uomo restò nella loro casa e diventò poi interprete per i caschi blu olandesi. Un impiego che avrebbe dovuto metterlo al sicuro, ma non fu così. È la stessa occupazione della protagonista del bel Quo vadis, Aida di Jasmila Žbanić, regista sarajevese che nel 2020 raccontò bene i fatti. La location principale di quella pellicola era costituita dal capannone industriale nel quale i residenti della zona si erano riparati sotto il controllo dei militari dei Paesi Bassi, che però cedettero alle pressioni di Mladić, il quale fece deportare e massacrare gli uomini.
La grande costruzione, simbolo del fallimento dell’intervento internazionale in quei mesi tragici, è uno dei luoghi cardine anche nel film di Ibrahimović, che però ci arriva con calma e seguendo un percorso insolito. Il ragazzo della Drina è un lavoro sorprendente, che si differenzia dai tanti che in questi decenni hanno cercato di raccogliere testimonianze e ricostruire le vicende. Il regista che vive in Ticino segue Irvin, cresciuto in Italia, nel suo ritorno a Srebrenica il 5 dicembre 2014, un rientro «per restarci», in un villaggio sulle colline circostanti che prima del conflitto aveva 200 abitanti e ora solo quattro. Tra loro l’anziano Emin, che in guerra ha perso figlio, fratello e nipote e vive da solo di un’agricoltura di sussistenza, utilizzando vecchi attrezzi. Alla situazione – utilizzare le risorse disponibili con gli arnesi disponibili e conservando un approccio tradizionale – si adegua il giovane, il cui sogno è costruire un villaggio di case in legno in una radura della foresta. Lo stesso bosco nel quale si inoltra per il taglio e la raccolta di legno e per seguire le tracce delle fughe e dei nascondigli dei bosniaci che trent’anni or sono cercavano una salvezza. Ci sono ancora i segni dei passaggi, sotto forma di vecchie coperte abbandonate, resti di confezioni di cibo o di scarpe.
Irvin aveva trovato «un’ancora di sicurezza» in Italia, perdendo poi i contatti con il genitore e scoprendo più tardi la verità. Dunque, la Bosnia costituiva «il» trauma difficile da affrontare, fino alla scelta di rientrare. «Tornare ti mette di fronte al trauma: finché non si fa questo passaggio, è impossibile andare oltre» spiega il protagonista nel film. È interessante il processo che compie il regista: non restare nel territorio della memoria e del passato, ma provare a guardare avanti, passando anche dalle fosse comuni diventate di nuovo campi coltivati o dalla foresta silenziosa che parla forte di fuggiaschi, di paure e di morti.
La storia di Irvin è semplice e straordinaria, sta tra la tragedia e la speranza, il dolore del ricordo e la volontà di ripartire e trasmettere. Ibrahimović (già autore dei documentari Custodi di guerra e Periferia del nulla) unisce l’osservazione e la riflessione, non indugia, ma riesce a commuovere. Senza citarlo, fa tornare alla mente Il ponte sulla Drina di Ivo Andrić, sempre ambientato sulle sponde del fiume simbolico che qui è chiamato «madre».