Non è vero che alla «gente», al cosiddetto «popolo», piace l’«uomo forte». Trump, Netanyahu e Putin per esempio sono potentissimi, ma non propriamente «forti». Sono abili e prepotenti: è diverso. Triste dirlo, ma l’arroganza sembra sedurre molto più della vera forza.
In altre parole, i leader citati sono indubitabilmente energici, determinati, capaci di decidere controvento. Tuttavia, sono forti in modo distorto. Il potere gli deriva da elettori più o meno liberi di scegliere (è bene distinguere tra democrazie reali – Usa e Israele – e «democrature» di fatto, come la Russia). Ma la delega popolare non è una cambiale in bianco che autorizza l’eletto a farsi beffe delle norme di civile convivenza. La forza fuori controllo ci mette niente a diventare violenza. E prima o poi lo diventa.
Saremo ingenui, idealisti, ma forte è l’uomo che non ha bisogno di violare le norme correnti e/o le leggi per imporsi. La forza autentica si misura dalla capacità di emergere per bravura, intelligenza, carisma rispettando le regole del gioco. Come nello sport, dove gli atleti si sfidano a condizioni di partenza identiche, attenendosi scrupolosamente ai regolamenti. Nel migliore dei mondi possibili, se vinci barando non sei forte, sei un baro.
Le regole del gioco politico per uomini realmente forti sono quelle della democrazia, il sistema di potere meno peggio che conosciamo. A cominciare dal rispetto delle leggi, delle carte costitutive e dei verdetti dei tribunali. Non è che se perdi le elezioni – è cronaca di quattro anni fa – cerchi di rovesciare il Campidoglio con una rivolta al limite del golpe. E non è che se torni sotto quella cupola da vincitore legittimamente eletto – come è successo a Trump una settimana fa – puoi graziare i rivoltosi che menavano spranghe di metallo sugli agenti, come se i codici giuridici non contassero nulla. E non contassero nulla non perché hai ragione, ma perché hai vinto.
Così come – su un piano di responsabilità sensibilmente più grave – non puoi ordinare al tuo esercito di sparare missili su persone inermi, violando il diritto di guerra e le convenzioni di Ginevra, commettendo cioè crimini contro l’umanità e/o la popolazione civile (poco importa che sia in Ucraina, nella Striscia di Gaza o in uno dei troppi scenari di spregio del diritto) e poi gridare allo scandalo se la Corte penale internazionale spicca un mandato d’arresto contro di te per una lista di brutalità assortite.
Lo sprezzo per le regole non dimostra forza, ma degrado democratico: attesta l’incapacità di competere rispettando le norme. È un tentativo di plasmare il mondo non attraverso la fatica di una lotta leale, ma grazie alla scorciatoia dei privilegi e di un’autocomprensione anarchica del proprio ruolo. Sgomito ergo sum, insomma. E sembra funzionare. Alla «gente» piace il boss che esercita il proprio strapotere con ostentata insolenza. «Ha le palle», dice, e va pure in sollucchero.
Non solo in America, ma a tutte le latitudini. Non faremo altri nomi ma spesso, a prevalere, sono leader (o ducetti) sfrontati, capipopolo al testosterone, lady di ferro tonanti. Ma davvero ci rappresentano? Siamo noi a renderli molto più forti di quanto dovrebbero. Come smantellare il loro ipertrofico potere? Lo scrisse cinque secoli fa Etienne de la Boétie (Discorso sulla servitù volontaria): «…non è necessario combatterlo, né abbatterlo. Si dissolve da sé, purché il paese non accetti di essergli asservito. Non si tratta di togliergli qualcosa, ma di non dargli nulla». Soprattutto, quando sarà il momento, di non dargli il voto. Nel frattempo stringiamo i denti.