Un'opera di Stefano Bean

Un’ostinazione che fa segno

by Claudia

Il termine Art Brut appare per la prima volta nel giugno del 1945, quando Jean Dubuffet, durante un viaggio in Svizzera in compagnia di Jean Paulhan, sostiene di essere alla ricerca di «un’arte immediata, senza fronzoli – di un’arte grezza». Guidato da questa spinta, il pittore francese inizia quindi a raccogliere opere la cui principale caratteristica è quella di non aver nulla a che spartire con ciò che, in quel preciso momento storico, è possibile vedere in un museo. Ciò che gli preme è che le creazioni delle quali è a caccia «si appellino all’essenza umana originale e all’invenzione personale e spontanea» piuttosto che al talento e al virtuosismo.

Nel corso della sua indagine, Dubuffet si interessa presto a figure di artisti che non si dichiarano tali, che operano nell’ombra e nell’anonimato per propria pura necessità, incuranti dello sguardo altrui, sprovvisti di formazione così come di qualsivoglia inquadramento accademico. Sovente si tratta di carcerati, solitari, pazienti psichiatrici, medium ed emarginati, ma pure di uomini e donne assolutamente comuni. Ciò che segue è oggi noto, e appartiene ormai da tempo alla Storia dell’arte del Novecento: la collezione di Dubuffet man mano va ampliandosi e il concetto di Art Brut dà nome a un fenomeno preesistente, che trova qui una sorta di legittimità. Con l’inizio degli anni Settanta, grazie alla mediazione di Michel Thévoz, l’insieme delle opere viene donato alla città di Losanna, dove oggi ha ancora sede sotto il celebre nome di Collection de l’Art Brut.

Ciò detto, l’idea di Art Brut ha avuto e ha una forte importanza e a questa, nel tempo, sono state affiancate altre definizioni, che ne mostrano le intrinseche sfaccettature e diramazioni, come, ad esempio, la Neuve Invention (collezione facente parte del sopraccitato museo). Non è dunque un caso che, per celebrare i suoi 50 anni di attività, anche il Club ’74 di Casvegno, l’associazione culturale che opera all’interno dell’Ospedale Sociopsichiatrico Cantonale attraverso le attività della socioterapia, abbia scelto di valorizzare pubblicamente il proprio prezioso patrimonio artistico con una mostra presso il Campus SUPSI e LaFilanda di Mendrisio.

Certo, l’operazione era rischiosa, poiché l’abusata equazione «Art Brut = arte dei folli» non solo è riduttiva, ma oltremodo scorretta: come già esposto, questo non è mai stato né il parametro di Dubuffet né di chi ha portato (e porta) avanti il suo progetto. Ciò che conta, in un’iniziativa del genere, è in primo luogo questa consapevolezza. Secondariamente, e di conseguenza mi viene da dire, determinanti sono i parametri di selezione delle opere, che non possono essere di matrice prettamente sociale: si cadrebbe in un approccio «pietista», di ostentazione di buoni propositi, poco utile e non artistico. La Collettiva ’74, questo il titolo dell’esposizione visitabile fino al 20 febbraio, schiva entrambi i pericoli grazie alla sobria curatela dello storico dell’arte Ivano Proserpi che, assieme a un gruppo di lavoro composto da grafici, studenti (CSIA), fotografi, architetti e operatori sociali ha dato forma all’evento.

Infatti, le 90 opere esposte – forse con qualche rarissima eccezione – rispettano i criteri di valutazione per essere definite Art Brut. Si tratta di creazioni pittoriche e plastiche in cui, a dispetto di una standardizzata e condivisa concezione del talento e dell’abilità, c’è un’ostinazione che fa segno. Nell’ammirare le molte composizioni oniriche, in cui si palesa un personale ordine simbolico, il visitatore percepisce un preciso bersaglio ripetutamente colpito per bisogno, non per vanità. Ciò pone in primo piano l’oggetto di interesse di ogni opera con dirompenza, appunto, grezza, ma non per questo non elaborata all’estremo. Si vedano, in questo senso, ad esempio, i bellissimi acquerelli di Renzo Marcacci o i disegni di Ines Lingenhag, dove chiaramente nulla è lasciato al caso. O, ancora, le impressionanti forme a mosaico di Sergio Vassalli, che immediatamente ricordano i «mandala» degli storici artisti brut Augustin Lesage e Adolf Wölfli.

Dal lato dell’espressione della sofferenza specificatamente psichiatrica invece, certo si è colpiti dalle tele di Françis Rougier, nelle quali appaiono chiaramente quegli angosciosi fenomeni di corpo – la percezione della fisicità frammentata, dell’interno confuso con l’esterno – che tragicamente caratterizzano un certo dolore psichico (le stesse considerazioni si potrebbero estendere agli artaudiani lavori di Ygor Rossi). Non da ultimo però, sono pure il colore e il gioco a farla da padroni nella Collettiva ’74: ci si soffermi, in visita, sui commoventi, troppo grossi, tronchi d’albero di Enrico Ferrari, per respirare un’aria variopinta e bambina, così come sui bellissimi busti di Stefano Bean, che certo potrebbero entrare direttamente, a pieno titolo e senza ombra di dubbio, nella nota collezione losannese.

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