La tradwife incarna un’idea di romantica casalinga perfetta legata ai «valori tradizionali» (Freepik.com)

Anche la moda aveva predetto Trump

by Claudia

Se c’è una cosa che possiamo dire con certezza, è che la moda non è mai stata neutrale. Il primo ricordo che ho di un accessorio come espressione politica è sui banchi di scuola, studiando la Rivoluzione francese, con il tipico nastro rosso, indossato al collo dalle Merveilleuses, in memoria dei decapitati.

Un semplice pezzo di stoffa poteva comunicare tutto: ribellione, dolore, memoria. Quindi, quando è stato rieletto Donald Trump lo scorso novembre, per gli osservatori di tendenze e passerelle non è stato un vero shock: come racconta la content creator Elysia Berman, l’esito sembrava «scritto sui muri da mesi».

Dal trend quiet luxury alla riscoperta della tradwife e della femminilità sobria, la moda ha tracciato con ago e filo una linea sottile verso un conservatorismo non solo estetico, ma ideologico. La moda, spesso liquidata come un capriccio frivolo, in realtà affonda le sue radici nella sociologia più profonda. Del resto, negli Stati Uniti, basta un cappellino da baseball rosso per comunicare il proprio schieramento politico. Come osserva Lafayettenews, «la moda di un’epoca è incredibilmente importante per comprendere il panorama politico». Dietro il trionfo del quiet luxury o della tradwife si nasconde un desiderio collettivo di stabilità, un antidoto al caos degli ultimi anni. Non è un caso, quindi, che la politica non si giochi solo sui palchi delle convention.

Ma cos’è questa tradwife? Per chi non è immerso nei social, l’idea evoca la romantica casalinga perfetta. Influencer da milioni di follower come Nara Smith incarnano questo ideale di femminilità impeccabile, senza sporcare mai un grembiule, un’immagine stereotipata che non lascia spazio ad inclusività, dove la perfezione è l’unico requisito. L’inganno sta proprio qui: mentre la tradwife sembra suggerire una vita semplice, in realtà proietta un’immagine così patinata da apparire irreale. «Fashion Magazine» recita: «Dopotutto, sognare di essere una casalinga in un’utopia immaginata è probabilmente più in voga che bramare il successo professionale». Questa estetica, definita dalla critica culturale Claire Burke come «disincanto di massa», è una risposta diretta al burnout collettivo che deriva dalla cultura dell’hustle (cioè del superlavoro o del lavoro frenetico). Parallelamente, il rinascimento del quiet luxury – con il suo amore per materiali pregiati e silhouette discrete – riflette un ritorno nostalgico al «vecchio denaro». Il fatturato in crescita di brand americani per eccellenza, come Ralph Lauren, che trasudano patriottismo, riflette un desiderio collettivo di stabilità e sicurezza economica che sembra sfuggire.

Come suggeriva Georg Simmel nella sua analisi sociologica, la moda «è il desiderio contraddittorio di essere parte di un gruppo e simultaneamente stare fuori del gruppo, affermando la propria individualità». Una tensione che ora si traduce in una dialettica tra estetiche retrò e aspirazioni contemporanee.

Moda e politica sono sorelle legate da un filo invisibile nella storia. Aileen Ribeiro, nel suo Fashion in the French Revolution (1988) ricordava come i francesi abbandonarono i fasti aristocratici per un look più democratico, dimostrando fedeltà alla Rivoluzione tramite indumenti patriottici. Similmente, Richard Thompson Ford della Stanford University sottolinea come il «Sunday Best», il completo elegante dei manifestanti per i diritti civili avesse il potere di comunicare valori di uguaglianza e dignità. Oggi, invece, le passerelle della moda che rievocano gli anni 50, parlano di desiderio politico di ritornare a valori tradizionali dopo decenni di cambiamenti tumultuosi.

Non sono solo i look esibiti su modelle magrissime a raccontare storie. Accessori, colori e forme comuni possono assorbire significato dalle strade, dalle masse che li adottano e trasformarsi in potenti veicoli di messaggi. Il cappello rosso di Trump, emblema di una polarizzazione politica, è un lontano cugino del basco rosso di Bobi Wine, simbolo della resistenza ugandese. E persino lo sport non sfugge a questa dinamica: la divisa gialla del calcio brasiliano, ormai legata ai sostenitori di Bolsonaro, e la polo Fred Perry, adottata dai Proud Boys, dimostrano come un indumento possa diventare un portavoce ideologico, che lo voglia o no.

Le scelte di moda quotidiane individuali, in un clima politico teso, non sono mai banali. Quando il mondo si uniforma, indossare un capo vintage trovato in un negozio dell’usato o optare per un outfit di un designer indipendente diventa un atto di dissenso.

Con i suoi simboli e slogan, l’abbigliamento ha saputo incarnare proteste e ideali, portando l’attivismo nelle strade e sulle passerelle. Nel 2017, dopo l’insediamento di Trump, migliaia di donne hanno trasformato le strade di Washington in un mare rosa di pussyhat. Quel cappellino con orecchie da gatto, nato come simbolo di resistenza, ha attraversato il confine tra piazza e moda, apparendo persino nella sfilata di Missoni. Lo stesso hanno fatto designer come Maria Grazia Chiuri di Dior, che ha trasformato in dichiarazioni politiche t-shirt con slogan come «We should all be feminists» a supporto di movimenti come il #Metoo. La moda ha sempre avuto un ruolo cruciale nell’attivismo sociale: colori distintivi, slogan incisivi e simboli scelti con cura rivelano immediatamente ideali condivisi, facendo di una scelta stilistica un’affermazione pubblica di lotta sociale.

L’attivismo non si limita alle piazze, ma passa anche dai tappeti rossi. Da Vivienne Westwood, che usava le t-shirt stampate per sfidare il potere, anche personaggi pubblici e politici in contesti sociali come il Met Gala hanno tramutato il proprio abito in un atto di ribellione, come l’outfit di Alexandria Ocasio-Cortez, che recita lo slogan «Tax the Rich» o Carolyn Maloney con l’abito ispirato alle suffragette. La moda diventa così una forma di comunicazione radicale, un dialogo tra creatore e pubblico che va oltre il tessuto. Se un colore può dividere una nazione e una t-shirt può fare eco a un movimento globale, allora ogni scelta che facciamo davanti allo specchio è politica, che lo ammettiamo o meno. Forse, la domanda non è più «cosa va di moda?», ma «cosa stiamo dicendo?». E se il linguaggio della moda può davvero predire chi siederà alla Casa Bianca, forse vale la pena ascoltarlo meglio.

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