Con oltre 7mila entrate in un mese nella Svizzera francese e 30mila in Francia, Riverboom è stato uno dei documentari svizzeri più visti del 2024. Nelle nostre sale è arrivato il 16 gennaio, riscuotendo un successo tale da essere ancora in programmazione. Un film che ha saputo catturare l’interesse del pubblico grazie a una formula vincente: un mix tra road movie e reportage, che ci porta in un Paese come l’Afghanistan sempre al centro delle cronache internazionali. Il tono del film riesce infatti a bilanciare il dramma del conflitto con momenti di sottile umorismo.
Ambientato qualche mese dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 e nel pieno dell’intervento militare americano, Riverboom segue il viaggio di tre reporter: Serge, un giornalista determinato a portare a casa un articolo importante, Paolo, un fotografo spensierato, e Claude, un timido tipografo svizzero che si improvvisa cameraman acquistando una videocamera a Kabul.
Il film, diretto da Claude Baechtold, uno dei tre viaggiatori, offre diversi livelli di lettura. Il primo è quello del reportage, dove i tre documentano un Paese devastato dalla guerra. Il secondo è un viaggio di scoperta personale e reciproca tra i protagonisti, che si incontrano per motivi di lavoro, ma si ritrovano legati da un’esperienza che cambia le loro vite. E, non da ultimo, Riverboom racconta anche l’incontro tra due mondi: quello dei reporter occidentali e quello del popolo afghano, ancora lontano dal ritorno al potere dei Talebani.
Questo incontro avviene in maniera spontanea, attraverso l’umorismo che smorza la drammaticità della guerra. Il documentario offre uno sguardo unico su un Paese in conflitto, grazie a filmati ritrovati vent’anni dopo. «Le cassette di quell’esperienza – racconta Baechtold – erano finite nel garage di un amico. Un giorno mi ha chiamato per chiedermi se le volevo ancora o se poteva buttarle, e riguardandole, ho capito che mostravano un Afghanistan diverso, fuori dagli schemi, che un reportage tradizionale non avrebbe mai catturato». I protagonisti, pur trovandosi in un contesto di guerra, sperimentano momenti di umanità genuina, che li avvicinano a un popolo spesso dipinto solo attraverso le lenti della guerra.
Tra le scene più sorprendenti, vi è quella dei viveri lanciati dagli aerei delle organizzazioni internazionali che finiscono in un campo minato, rendendoli quasi irrecuperabili. Altrettanto interessanti sono gli incontri con la popolazione e i militari afghani, che rivelano una realtà complessa, fatta anche di accoglienza inaspettata verso gli stranieri.
Dal punto di vista formale, il documentario si distingue per l’uso originale di fotografie combinate con il commento fuori campo del narratore, spesso ironico e leggero. Questo stile, che ricorda il celebre La Jetée di Chris Marker (1961), intreccia il linguaggio visivo con quello verbale, creando una narrazione diversa dove le immagini statiche si fondono con le parole per costruire un racconto che riesce a coinvolgere lo spettatore, invitandolo a riflettere su quelle realtà.
In definitiva, Riverboom è un documentario che, pur trattando temi drammatici, riesce a farlo con un tocco di leggerezza, offrendo una visione intima e autentica di un Afghanistan mai visto, attraverso gli occhi di tre reporter che, quasi casualmente, si sono ritrovati a vivere un’avventura straordinaria e probabilmente irripetibile. È un’opera che non solo documenta, ma racconta la vita in tutta la sua complessità, con un approccio che mescola realtà e narrazione, creando un racconto profondo e per nulla scontato.