Il Jamaica

by Claudia

Per antifrasi, rispetto alle grigie giornate milanesi ed evocando al contempo il Jamaica Inn (1939), taverna-titolo di un film di Hitchcock, un bar di Brera nel dopoguerra, si racconta, viene ribattezzato così da un musicologo. Giulio Confalonieri (1896-1972), anche pianista, compositore – tra le sue opere Rosaspina (1939), leggenda drammatica su libretto proprio in tre atti e quattro quadri – e autore di un libro sui barboni di Milano e uno sulla vita di Cherubini, era un grande amante dello scopone. Frequenta, ogni giorno, il bar Jamaica, dove appollaiato su uno sgabello, di spalle, in febbraio, sono al bancone. Per abbracciare con gli occhi il più alto numero possibile di piastrelle bianche che rivestono le mura: forse l’unica vera particolarità rimasta di questo bar storico decaduto.

Una con la faccia grigia, dietro il bancone, urla contro i camerieri. Da questo punto di vista, con i tavolini davanti vuoti riservati per i fantasmi dei vecchi habitué o per non avere nessuno tra i piedi e tutti nel dehor-serra triste, inquadro, con lo sguardo, tutto l’arco ricoperto di piastrelle bianche tipiche di certe latterie milanesi anni Cinquanta. È la stessa inquadratura, più o meno, in cui l’ho visto la prima volta, al trentaseiesimo minuto del film La vita agra (1964) di Carlo Lizzani, tratto da La vita agra (1962) di Luciano Bianciardi: Ugo Tognazzi al bancone con l’amico Carlone (Elio Crovetto) e la morosa Anna (Giovanna Ralli). Alle loro spalle, sotto l’arco, Enzo Jannacci strimpella la chitarra e canta L’ombrello di suo fratello (1961). Riappare, questo buco di bar a cinquanta metri dall’Accademia di Belle Arti – gestito ai tempi d’oro da Elio Mainini, figlio della signora Lina, anima del posto dal 1911 quando era ancora una fiaschetteria per artigiani del quartiere – quattro minuti dopo. Altra scena: Tognazzi in stato di grazia preda di discorsi bianciardiani-mezzi flussi di coscienza-critica del consumismo-enumerazioni milleriane con sottofondo l’orchestrina jazz dal vivo e una fauna fumosa indimenticabile. In mezzo alla quale, si può acchiappare, in un cameo fuggevolissimo stile nouvelle vague, Bianciardi stesso avvolto in una giacca di montone.

Chiamato «bar delle Antille» nel suo romanzo, spunta a pagina ventidue la notte tardi quando «i quattro giocatori di tressette nemmeno litigavano più». Torna la pagina dopo, due volte, sempre con due caffè doppi. La prima «per fortuna non si fanno vedere i pittori capelloni» e la seconda «senza badare ai pittori capelluti». Con i capelli cortissimi, immortalato a metà anni Cinquanta in alcuni scatti di Ugo Mulas, la faccia un po’ da bamboccione ciondolante in cui contrastano occhi intelligenti, qui era di casa, anche perché la casa-studio era dietro l’angolo, in via Fiori Chiari, Piero Manzoni (1933-1963). Morto giovane, l’artista della merda – Merda d’artista (1961) – ma non solo: magnifici i suoi acromi fatti di michette immerse nel caolino, sassolini, pallini di polistirolo espanso, fibra di vetro, batuffoli di ovatta, peluche. Mulas stesso bivaccava qui al bar Jamaica – ritratto ben quattordici volte nelle fotografie in biancoenero esposte alla mostra appena vista stamattina a Palazzo Reale – per ore.

Con la pazienza dei merli, nascosto dietro il giornale, aspetto che succeda qualcosa che ravvivi il mio reportage. Ma è solo deserto, noia, nostalgia, malagrazia, urla di nuovo contro i poveri camerieri, un altro caffè così così ingollato per disperazione. Filologico, ricordo, una notte di vent’anni fa o giù di lì, ai tempi di drammaturgia alla Paolo Grassi, un gemmologo al bancone: beveva solo rum. Un altra sera tardi al Jamaica incontrai un rummologo di Anversa. Benché a quei tempi ci fosse ancora, oltre alla cartina della Giamaica come macchia astratta tipo incisione che c’è ancora, il veliero nella bottiglia di rum, non è che qui – dove impera l’umore un po’ blasé senza però più estro né umanità malcelata – ti ammazzassi dalle risate neanche allora. Uno entra, si guarda intorno, sbuffa, mugugna qualcosa, esce. Resta, dove rifugiare lo sguardo, la mappatura geografica di piastrelle bianche un po’ irregolari che richiama gli Achromes pieromanzoniani o quelle della latteria Pirovini scomparsa qui vicino. «È la Milano che dispare: e quale la lasceremo non era, e qual’era neppur più la ricordo», Carlo Emilio Gadda, L’Adalgisa (1943).

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