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L’illusione della scelta infinita

by Claudia

Siamo nell’età dell’eccesso e dell’indistinto. E i libri non si sottraggono a questa aria del tempo. Secondo i dati Istat (Istituto italiano di statistica), nel 2023 sono usciti 85’192 libri, che equivalgono a circa 280 libri al giorno (solo i feriali). Nel 2024 sono sicuramente cresciuti e nel 2025 arriveremo a sfiorare i 100mila. Il paradosso è che la crescita di produzione libraria è inversamente proporzionale al numero dei lettori, diminuiti in Italia di circa un milione rispetto al 2023. Qualche giorno fa, il mio quasi omonimo Paolo Di Paolo, scrittore e giornalista (non è un parente), ha inviato al giornale web Dagospia una nota, lamentando il fatto che tra quelli che leggono sempre meno ci sono anche gli addetti ai lavori: cioè gli editori in primis, i funzionari editoriali e i giornalisti. E ci sono anche i politici, gli imprenditori, i manager, gli autori televisivi. Persino gli insegnanti leggono poco, e non solo i docenti di scuola secondaria: è triste vedere i professori universitari fare corsi sui soliti bestseller o invitare per conferenze accademiche solo gli autori premiati allo Strega. Ci si chiede: possibile che, anche per loro, come per i festival e per la televisione, l’unico criterio di scelta sia il successo? Di Paolo conclude: «Difficile fare proseliti se non si ha più fede».

In effetti, come si può promuovere la lettura se non si legge (o si leggono soltanto i soliti noti)? Io che non faccio che leggere senza avere la pretesa di promuovere la lettura, non riesco a star dietro a un centesimo di quel che esce. Purtroppo, non ho ancora imparato le tecniche della lettura trasversale, e se devo recensire un romanzo lo leggo tutto, lo annoto e spesso lo rileggo. Il tempo limitato (le 24 ore quotidiane, i sette giorni alla settimana) mi costringe a trascurare libri anche molto importanti che compero (o che ricevo in omaggio da editori, da autori, da amici o pseudo amici), che mi piacerebbe leggere e che purtroppo finiscono per giacere a lungo su una scrivania, progressivamente sovrastati da altri volumi che restano lì, sovrastati a loro volta dai nuovi arrivi destinati a essere sovrastati, e così all’infinito. Sommerso da questa mole spaventosa (comunque, per fortuna, una minima parte del totale delle uscite), non faccio che maturare sensi di colpa rispondendo picche ad autori (amici e no) che mi sollecitano a leggere i loro libri (anche quelli non ancora pubblicati). Non posso negare di vivere con una certa ansia certe richieste pressanti di lettura.

Pur tuttavia, mi sento un privilegiato. Ci sono addetti ai lavori editoriali e/o culturali che non hanno il tempo di leggere nulla. Prendiamo l’addetto-tipo dell’ufficio stampa di una qualunque casa editrice. Anni fa era un’attività che spettava a intellettuali e scrittori di primo piano, come Italo Calvino, Guido Davico Bonino, Nico Orengo, Ernesto Ferrero: si trattava e si tratta di tenere i rapporti con gli autori, che un tempo erano spesso rapporti di amicizia e di scambio alla pari; di promuovere un romanzo o un saggio presso i giornali, puntando sugli elementi di forza e di novità per attivare l’interesse dei critici e in definitiva del lettore. Quando Calvino alzava il telefono, lo faceva a ragion veduta. Oggi l’ufficio stampa non può materialmente occuparsi con attenzione della valanga di titoli sfornata dalla sua casa editrice: può semmai soffermarsi rapidamente su alcuni aspetti più o meno significativi orecchiati qua e là, oppure segnalati in una sinossi o nella quarta di copertina. Nessuno si sogna di «perdere tempo» a leggere interamente i libri da promuovere, ma molti fingono di averli letti o almeno ne parlano come se…

Qualche settimana fa mi sono imbattuto in un paio di errori clamorosi leggendo le bozze (licenziate per la stampa) di un romanzo molto atteso: ho segnalato le incongruenze allo stesso funzionario editoriale che pochi giorni prima me ne aveva tessuto le lodi. Per spiegargli in che cosa consistevano gli errori, ho dovuto richiamare alcuni personaggi del libro; ma di fronte al suo imbarazzo, mi sono sentito costretto a chiedere al mio interlocutore: «Tu il libro l’hai letto?». Messo alle strette, mi ha risposto in tutta onestà di no. Avrebbe girato le mie segnalazioni all’editor che aveva seguito (o non seguito) il romanzo. Errori così macroscopici dovevano essere avvistati immediatamente a una prima lettura sul «dattiloscritto» e discussi dall’editor con l’autore. Il sospetto è che l’editor non abbia fatto il suo dovere, e che non abbia letto il libro come avrebbe dovuto. Probabilmente ha avuto pochissimo tempo a disposizione, pressato da altri libri da editare (senza leggerli, ovviamente). C’era un tempo in cui se qualcosa sfuggiva all’occhio del redattore, il correttore di bozza avrebbe provveduto a rimediare.

D’accordo, ma la domanda-chiave è: perché si pubblica tanto se si vende sempre meno? Prima risposta: perché pubblicando tanti libri un editore (grande e piccolo) è più visibile sugli scaffali della libreria. Secondo: perché pubblicando tanti libri, hai statisticamente più probabilità di azzeccare il titolo che vende. Terzo: se si scegliesse la strada della decrescita, gli editori pubblicherebbero solo i libri che vanno in televisione o i probabili bestseller. Questa terza risposta è l’unica che guarda alla qualità. Il guaio è che qualità letteraria, anzi letteratura, è diventata sinonimo di noia, di difficoltà e quindi di insuccesso. E se i primi a non crederci sono gli editori, figurarsi i lettori.

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