L’occhio del lupo di Curio in un fotogramma tratto dal film

Gli inquietanti artifici del predatore

by Claudia

Da qualche anno, in ambito artistico in generale e audiovisivo nello specifico, è molto acceso il dibattito sull’uso dell’intelligenza artificiale, questione che ha raggiunto il suo apice quasi due anni fa con il duplice sciopero di attori e sceneggiatori a Hollywood, un moto di protesta che aveva, tra le cause scatenanti, proprio l’applicazione indiscriminata delle nuove tecnologie.

In particolare, e questo è un discorso affrontato in questi giorni anche nel contesto elvetico, con una lettera aperta scritta dall’animatore Marcel Barelli, ci si interroga su quanto si possa ancora parlare d’arte quando c’è di mezzo l’intelligenza artificiale. A questo cerca di rispondere, in parte, il Generative Center di Lugano (per l’esattezza situato a Besso), che nella promozione dei propri progetti parla dell’implementazione di arte generativa. Tra questi lavori ce n’è uno presentato ieri, 16 febbraio, al Museo del Malcantone: Il lupo di Curio è di fatto il primo film svizzero realizzato interamente con l’IA e progetto pilota di un’iniziativa più ampia chiamata L’eco delle leggende, che si propone di portare sullo schermo pezzi di folclore elvetico usando queste nuove tecnologie.

Il cortometraggio, della durata di un quarto d’ora circa, si presenta come qualcosa di serio e ambizioso, realizzato da persone e non solo da macchine, come si può leggere nei titoli di coda: ci sono dietro tre sceneggiatori/registi, Kevin Merz, Artur Schmidt e Felix A. Bachmann; le immagini sono state montate da Alberto Bernard e il sonoro da Marco Viale; la voce narrante è di Patrizia Salmoiraghi, nota al pubblico nostrano come speaker televisiva per la RSI, e nel cast c’è anche un veterano come Marco Balzarotti, storico doppiatore italiano di Batman nella maggior parte dei prodotti animati e videoludici usciti dal 1992 in poi. Vanno poi citati coloro che hanno partecipato a livello produttivo: la RSI e più ampiamente il servizio pubblico con il suo Patto dell’audiovisivo. Insomma, si tratta di un’opera dove, sulla carta, i modelli generativi fungono da strumento al servizio dell’istinto creativo umano, e non da espediente per sostituire in toto l’apporto artistico di cast e troupe.

In tal senso, è stata felice l’intuizione del formato breve, così come quella di un lavoro sequenziale dove le singole inquadrature tendono a non essere particolarmente lunghe, stratagemma utile per scongiurare l’effetto straniante che tende a generare il prodotto visivo realizzato con queste tecnologie. E puntando su miti e leggende i tre autori possono dare vita a quello che è un altro mondo, parzialmente separato dal nostro, non del tutto ancorato ai princìpi della verosimiglianza a tutti i costi.

Una sinergia ponderata

Se sul piano etico siamo dalle parti di una sinergia ponderata tra uomo e macchina, tra passato, presente e futuro (il mito, le persone dietro le quinte e la tecnologia generativa), su quello tecnico la strada è ancora lunga: c’è un’evidente cura nell’immagine, che lascia intendere che la sceneggiatura fosse ricca di dettagli per arrivare a un risultato il più preciso possibile, ma il fotorealismo scivola occasionalmente in quello che gli americani chiamano uncanny valley, replicando la realtà ma senza riuscire a nascondere completamente l’artificio di base (a seconda delle inquadrature, soprattutto i paesaggi ostentano un’estetica a volte troppo riconoscibilmente virtuale), e i dialoghi non aderiscono sempre perfettamente ai labiali dei personaggi.

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