Avevo conosciuto Chorowura Dramani nel 1983, quando era il capo del villaggio di Jang e primus inter pares fra i Grandi Elettori del Re di Gonja, la più grande formazione politica tradizionale del Nord del Ghana. Jang era la capitale di una sorta di regione autonoma dal potere del re proprio in quanto sede istituzionale del presidente del consiglio dei capi che nominava il Re. Jang è l’insediamento più antico di una regione che era allora conosciuta negli ambienti missionari come overseas, «oltremare», perché durante la stagione delle piogge rimaneva tagliata fuori dal resto del mondo da fiumi in piena e acquitrini. Quattro-cinque mesi che peraltro lasciavano poi emergere dalle acque piste impossibili: nella stagione secca occorrevano quattro-cinque ore di motocicletta per coprire i sessanta chilometri di selva che separavano Jang dalla strada principale. Insomma, un incubo per arrivare ad un villaggio isolato, sul confine del più grande parco nazionale del Ghana. Dei due anni che avrei passato a Jang ricordo le notti sdraiato sotto la zanzariera sul tetto della casa di fango che mi ospitava a guardare le stelle in cielo che mi sembrava ancora più immenso dell’universo. In lontananza le risate delle iene. Un angolo di mondo fuori dal mondo, Jang: anni intensi per il giovane Altropologo che alloggiava a casa di Kanitty, il figlio maggiore di Chorowura che abitava a fianco di suo padre. In quei due anni avevo avuto modo di conoscere Chorowura Dramani piuttosto bene. Era la personificazione esemplare di quanto uno si aspetti da un leader che sia un Capo. Aveva allora, forse, una cinquantina d’anni. Taglia media, asciutto e muscoloso. A differenza degli altri capi divisionali che si atteggiavano a giudici severi e guerrieri implacabili, lo sguardo di Chorowura restava impresso perché era mite e profondo, pensoso e quasi malinconico, specchio di un carattere pacifico e riflessivo. Sempre ultimo a parlare – e poco – nel consiglio degli anziani, era rispettato in tutta la regione. La sua casa era meta di quanti affrontavano il lungo cammino nella selva per chiedergli un giudizio e un consiglio. Chorowura Dramani era generoso, grande lavoratore sui suoi campi che coltivava personalmente ebbe a dirmi un giorno: «Vedi, io sono povero perché tutto ciò che mi resta, dopo che ho distribuito quel che ho alle mie quattro mogli, lo do a chi ne ha bisogno. Così – aveva concluso con un sorriso e gli occhi che brillavano (il ricordo mi è chiaro) – tutti sono in debito con me e mi vogliono bene».
Non ero più tornato a Jang. Ma quando quest’anno venni a sapere che il Capo era ancora vivo – a centouno anni – decisi di andare compiere la liturgia del Saluto al Capo proprio come, ormai sono cinquant’anni, facevo tutte le mattine. Le strade sono migliorate e i sessanta chilometri di pista si coprono in quaranta minuti di piacevole percorso. Poi la sorpresa: il villaggio di Jang, che ricordavo popoloso, con frotte di bambini, era quasi deserto. Fra le rovine delle tradizionali case locali spiccavano qua e là le orribili, malsane casette di cemento e lamiera stile cinese che hanno distrutto l’anima del tessuto abitativo indigeno. Un paio di giovani che non conosco e mi guardano curiosi mi accompagnano alla nuova casa del Capo («il Palazzo» – lo chiamano). Un orrendo bungalow senza stile e senza concetto, nella hall cavernosa e buia dove Chorowura Dramani già allertato mi attendeva. «Il Capo è cieco, dunque stiamo al buio»: così Gince, l’unica ancora vivente delle quattro mogli. Unica persona che ho avuto modo di vedere in un villaggio deserto. Un incontro emozionante. Il Capo mi abbraccia – impensabile allora – e mi palpa per assicurarsi che… «Sì, sei proprio tu! Lo stesso naso lungo… la barba… la voce… E anche gli occhiali!». Sul muro, in cornice (cinese, pacchiana) un attestato di stima e riconoscimento per i servizi resi alla Corona in mezzo secolo bla…bla… scritto in un’inglese pomposo come solo in Ghana e firmato dal Re di Gonja. Mi viene il magone… «Vedi, il Governo trent’anni fa ha sistemato la strada. Volevano fermare la fuga dai villaggi rurali. Quello che è successo è stato invece che i giovani sono andati via tutti. Vanno a cercare lavoro al Sud. Tornano in pochi e non trovano mogli da sposare perché sono andate via anche le donne. Allora ripartono. Io sono rimasto da solo. E cieco. Gince ed io. In questa casa. Vedi?». Nel viaggio di ritorno avevo le lacrime agli occhi.