Mentre il primo ministro Netanyahu è stato nuovamente chiamato al banco dei testimoni al processo di corruzione a suo carico, gli israeliani hanno trascorso la settimana con il fiato sospeso a causa del vacillare del fragile accordo sulla restituzione degli ostaggi e il cessate-il-fuoco, messo a repentaglio anche dalle minacce di Trump e dal suo nuovo inquietante piano su Gaza. Ovvero: gli Usa dovrebbero prendere il controllo della Striscia e i circa due milioni di persone palestinesi che ci vivono dovrebbero andarsene. Contemporaneamente i riflettori dei media sono stati puntati sull’Educational bookshop (Eb) di Gerusalemme est dopo che, domenica 9 febbraio, è stato oggetto di un violento raid della polizia israeliana. Ultimamente dedita alla caccia alle streghe, quest’ultima ha fatto irruzione nella libreria (che ha tre sedi vicine) seminando scompiglio, confiscando materiale e arrestando i gestori Mahmoud e Ahmad Muna, rispettivamente zio e nipote, sospettati di vendere testi di istigazione e sostegno al terrorismo.
Fondato nel 1984 l’Eb è una vera e propria istituzione per ogni diplomatico, giornalista, attivista o ricercatore che si trovi a passare in via Salah Al Din, o a risiedere nell’hotel American Colony, dove hanno sede i negozi che offrono una vasta gamma di testi letterari, di cultura palestinese e sulla storia del conflitto in tutte le lingue. La presenza sugli scaffali delle maggiori opere di letteratura e saggistica ebraica e israeliana è inoltre indice dell’indiscutibile atmosfera di tolleranza e convivenza che consente ai frequentatori palestinesi, israeliani e internazionali di incontrarsi e dialogare, scambiando idee e allargando le prospettive. Non solo, ma i membri della famiglia Muna sono a loro volta intellettuali preparati e, per esperienza personale, posso testimoniare che sanno essere anche preziosi consiglieri quando si tratta di orientarsi nella scelta dei testi.
Così, mentre a Mahmoud e Ahmad è fatto divieto di recarsi in libreria per non «ostacolare le indagini in corso», mi auguro di onorare il loro lavoro recensendo uno degli ultimi libri da me acquistati all’Educational bookshop: Three worlds. Memories of an Arab-Jew (in italiano Tre mondi. Memorie di un arabo-ebreo) dello storico del Medio Oriente Avi Shlaim, che sfida la narrazione sionista sulle reali cause della massiccia emigrazione in Israele dei profughi iracheni in quella che è stata definita la Nakba ebraica o la Grande Aliyà. Il memoriale politico e personale di Shlaim è strutturato come un viaggio geografico e culturale che ha luogo nel corso dei suoi primi diciotto anni trascorsi in tre città: l’irachena Baghdad, l’israeliana Ramat Gan e l’inglese Londra. La prima parte, dedicata alla vita in Iraq, dove la sua famiglia privilegiata conduceva uno stile di vita molto agiato contornata da personale di servizio, risuona come un inno nostalgico e struggente: «Eravamo ebrei arabi. Vivevamo a Baghdad ed eravamo ben integrati nella società irachena. Parlavamo arabo a casa, i nostri costumi sociali erano arabi, il nostro stile di vita era arabo, la nostra cucina era squisitamente mediorientale e la musica dei miei genitori era un’attraente miscela di arabo ed ebraico… Noi della comunità ebraica avevamo molto più in comune, linguisticamente e culturalmente, con i nostri compatrioti iracheni che con i nostri correligionari europei».
La discendenza ebraica in Mesopotamia risale addirittura all’epoca babilonese, anticipando di un millennio l’ascesa dell’Islam. Negli anni 80 dell’Ottocento a Baghdad si contavano 55 sinagoghe e, di tutte le comunità ebraiche nell’Impero Ottomano, quella irachena era la più integrata nella società locale, e la sua influenza era evidente in ogni ramo della cultura e dell’economia, grazie ad una tradizione cosmopolita di rispetto reciproco e cooperazione, lontana dai ghetti e dalle persecuzioni cristiano-europei. In seguito alla fondazione dello Stato d’Israele, tuttavia, benché il Consiglio generale della comunità avesse inviato un telegramma all’Onu opponendosi alla risoluzione di spartizione e alla creazione di uno Stato ebraico, gli ebrei iracheni erano ormai ampiamente sospettati di essere sostenitori del sionismo che nel luglio 1948 si tradusse reato. Tale ondata di ostilità ebbe immediati risvolti economici che spinsero molti ebrei ad abbandonare il Paese, fino all’esodo di massa degli anni 1950/1951. Shlaim tuttavia sostiene che l’Iraq fu deliberatamente reso insicuro per gli ebrei dopo il 1948 affinché emigrassero in Israele per svolgere i lavori più umili, per sostenere lo sviluppo industriale e agricolo, e ingrossare le fila dell’esercito. A favorire la partenza sarebbe stata un’ondata di cinque bombardamenti di obiettivi ebraici a Baghdad, tre dei quali, secondo gli esami dello storico, opera degli stessi ebrei sionisti iracheni.
Le critiche di Shlaim all’establishment ashkenazita proseguono con la descrizione dell’ingresso in Israele che dipinge come una discesa economica, sociale e identitaria. Già all’arrivo in aeroporto gli ebrei orientali venivano irrorati con pesticidi DDT e successivamente condotti in campi di transito squallidi e insalubri, circondati da filo spinato e sorvegliati dalla polizia. Da lì le famiglie venivano costrette a stabilirsi in zone periferiche desertiche o di confine per rimpiazzare la popolazione palestinese cacciata dai propri villaggi. Giunto in Israele nel 1950, all’età di 5 anni, lo storico racconta di aver sofferto per la discriminazione e la denigrazione della sua lingua e di essere stato sottoposto ad un violento lavaggio del cervello per conformarsi al modello europeo. Terminato il servizio militare, Shlaim si trasferirà a studiare in Inghilterra anche grazie alla lungimiranza della madre, straordinaria coprotagonista del racconto, che aveva compreso la sua infelicità e il suo disagio.
Gli studi e le testimonianze sulla sostanziale integrazione degli ebrei nei Paesi arabi fino 1948 mettono in discussione l’abuso della simmetria tra il destino dei mizrahim, gli ebrei orientali, e quello dei palestinesi, che dipinge gli ebrei come vittime della persecuzione araba endemica e Israele come rifugio salvifico. Non solo, ma allo stato attuale della crisi, il contributo di Shlaim e di altri come lui costituisce anche uno dei migliori modelli di cui disponiamo per immaginare un futuro migliore per israeliani e palestinesi, e coltivare così uno spiraglio di speranza. Da qui l’importanza di proteggere dalla censura del totalitarismo una libreria che, consentendo la circolazione di voci critiche silenziate, simboleggia uno spazio di libero pensiero, democratico, non gerarchico e soprattutto consolatorio per le anime che attraversano tempi bui loro malgrado.