Casa Boschi Di Stefano

Più predisposto alla deriva psicogeografica stile Debord, messa in atto anche da Rumney – del quale tra non molto vedremo quattro tele – e in tempi bui alla deriva bella e buona, questa mattina fredda a metà febbraio andando svelto dalla centrale a via Jan quindici, traccio la traiettoria più breve. Dodici minuti neanche e da via Bartolomeo Giuliano (pittore, specialista in onde) svolto l’angolo in via Giorgio Jan (1791-1866): erpetologo emerito e direttore per anni del museo di storia naturale di Milano. Ma rimango fermo all’angolo: è lì che sono innestati, in diagonale, balzani bovindi. Peculiarità della palazzina orchestrata tra 1929-1931 da Piero Portaluppi (1883-1967): stravagante architetto elegantissimo le cui tracce – per via dei resti del folle Wagristoratore – sono andato a cercare su in cima al passo San Giacomo e a bocca aperta mi aveva lasciato il camino ettagonale in malachite proprio qui a Milano, dove avremo modo di studiarlo come si deve in almeno tre posti.

Per ora, avventurandomi con gli occhi lungo questa polarità angolare di gusto borrominiano, imbattendomi al secondo piano nel luogo del giorno, racimolo alcuni elementi enigmistici portaluppiani: due sfere incastonate nello spigolo, la forma a punta di stella delle coppie di finestre dei bovindi di sbieco, fregi-rebus in rilievo come pezzi stilizzati di puzzle. Un motivo che ritrovo nell’ingresso, levigato e sviluppato in verticale, appena prima di entrare e salire le scale in ferro battuto a tema torchio da stampa, corrimano in legno, triangolini del pavimento a mosaico giù a capofitto con lo sguardo, pareti ondeggianti in strepitoso falso marmo. Nell’anticamera, i protagonisti di questo appartamento divenuto dal febbraio di ventidue anni fa casa-museo, ognuno con in braccio un gatto, sono ritratti in un goffo dipinto della loro collezione. Antonio Boschi (1896-1988): ingegnere alla Pirelli, inventore di un giunto importante che del suo nome ne porta un pezzetto, Giubo. E Marieda Di Stefano (1901-1968), ceramista niente male il cui padre è il committente di questa palazzina dove al secondo piano, in undici stanze, sono appesi trecento quadri.

Accumulo-catasta con pezzi di pregio, certo, però bisogna andare a sentimento. Salto il corridoio, a parte un paio di lievi Marussig. Mi aspetta, in bagno, Ralph Rumney: artista inglese situazionista autore di una passeggiata psicogeografica veneziana in forma di fotoromanzo, abitatore dell’isola di Linosa per un anno, vive un più breve periodo qui a Milano passando anche in questa casa per un whisky. Illuminato da un lampadario Venini in ottone e vetro di Murano opalescente, il primo dei quattro quadri astratti che occupano l’ex bagno con pavimento alla veneziana e marmo verde tundra, s’incontra sopra la vasca da bagno nera dove le piastrelle giallo senape all’antica si sposano con le spatolate ocra. Macchie blu genziana e rosso garanza, tra traiettorie bianco panna, completano il quadro intitolato come gli altri tre, tra i quali uno svela sotto articoli di giornale, Composition (1957). Spazio espositivo inusuale per un pittore misconosciuto tra tachismo e riflessi di Augusto Giacometti, la sala da Rumney vale la visita. Come pure anche solo, nella stanza successiva, una minuscola scultura di grazia debordante: opera di Arturo Martini dove le collegiali pettegolano.

Nella sala Sironi, piena zeppa di quadri, agguanto quelli con gli scorci di periferia per via dei quali l’avevo tirato in ballo per l’angolo fuori il bar Luce e come aggettivo esplorando il Gallaratese di Aldo Rossi. Portaluppi torna, magistrale, nel taglio-rebus della porta a vetri a righe intramezzata da ferro battuto a quadri alla Josef Hoffmann. Stanza dopo, vetrinetta: un miniacromo di Piero Manzoni che avevamo incontrato svaccato al Jamaica, fa da sfondo al giunto Giubo esposto come opera d’arte. Nel soggiorno, un grande quadro di De Chirico e più in disparte, l’Annunciazione (1932) di Alberto Savinio, suo fratello meno conosciuto ma che io preferisco, soprattutto come scrittore finissimo del quale qualche frammento del suo libro-faro su questa città abbiamo già incontrato. Cornice poligonale, Maria con testa di pellicano alla finestra sghemba che richiama la cornice dove si affaccia la testa gigante dell’angelo che mi sembra de Sade. Passo oltre i nucleari e nell’ultima stanza ammiro di Marieda Di Stefano, il toro trafitto.

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