La notizia è recente. Dopo il raddoppio del Canale di Suez, terminato nel 2015, l’Egitto completa un’altra delle sue opere monumentali: l’estensione dello stesso Canale di oltre 10 chilometri di lunghezza in più su un totale di circa 90 chilometri. Prospettiva incoraggiante poiché incrementerà i traffici marittimi lungo il braccio di mare che collega il Mediterraneo al Mar Rosso ed estenderà i piani occupazionali. Ma che porta con sé l’amara consapevolezza che quella lingua d’acqua, nazionalizzata da Nasser nel 1956, ha conosciuto una perdita di guadagno, con il recente calo dei transiti, di ben 7 miliardi di euro nel solo 2024. Che cosa allora funziona e cosa non funziona nei piani faraonici del presidente egiziano Abdel Fattah Al Sisi? E quanto potrà concretamente prodursi di questa politica a forte tasso di investimento, in un quadro mediorientale che vede l’Egitto esposto sempre più alle pressioni e ai condizionamenti della Casa Bianca che, come sappiamo, ha chiesto al Cairo di accogliere, insieme alla Giordania, quelli che Washington chiama «sfollati» palestinesi e l’Egitto viceversa veri e propri «deportati» dal massacro? E quanto potrebbero incidere le sanzioni che Trump minaccia di imporre al Governo egiziano – tanto più dopo il garbato rifiuto di Al Sisi di raggiungerlo negli Stati Uniti – in caso di una reticenza del Cairo ad affollare il Sinai di scampati al «genocidio» (secondo il lessico egiziano)?
Le risposte sono nelle cifre ma anche in larga misura nello spettro di osservazione, che naturalmente è soggetto in primo luogo – anche se non solo – agli sviluppi della questione israelo-palestinese e all’irrealistica possibilità, come Washington vorrebbe, di «liberare» Gaza dalla presenza di Hamas. Se i dati relativi all’ammodernamento dello Stato parlano infatti di investimenti miliardari, un giudizio sulla loro efficacia è possibile solo diversificando le prospettive. A fronte delle spese colossali che stanno indebitando le casse egiziane, nessuno può in effetti prevedere se e in che misura avranno un favorevole impatto economico nel medio e lungo termine. Solo un dato è certo: che nello specifico delle mastodontiche opere infrastrutturali di questo decennio si può leggere qualcosa di rivoluzionario. Mai nella sua settantennale storia moderna la governance del Cairo ha infatti espresso una simile ambizione all’ammodernamento e una tale quantità di opere. L’elenco è addirittura sterminato, ma alcuni progetti ci aiutano a stilare un possibile bilancio. In primo luogo la creazione (dal 2015) di una nuova capitale a una cinquantina di chilometri dal Cairo: la cosiddetta New Capital, che ospiterà il nuovo Parlamento, le diverse ambasciate, gli uffici amministrativi centrali, il più alto grattacielo e la più grande moschea d’Africa. A seguire la costruzione del nuovo Grand Egyptian Museum, ritenuto il più vasto museo archeologico del mondo (in grado di ospitare circa 5 milioni di visitatori all’anno, si estende su una piattaforma di 81’000 metri quadrati, comprendendo un cinema, un’intera sezione dedicata al Tesoro di Tutankhamon e la gran parte del patrimonio archeologico dell’Egitto faraonico).
Poi altri progetti di portata colossale: la creazione della avveniristica Nuova Al Alamein, accanto a quella vecchia (vi sorge anche un albergo a 7 stelle), l’incremento del numero dei musei faraonici, islamici e cristiani, la moltiplicazione dei percorsi viari (molti dei quali ad alta velocità), la costruzione di decine e centinaia di sopraelevate e ponti (tra cui, al Cairo, quello più largo del mondo), la creazione di un nuovo spazio idrico nella Valle della Tushka (una sorta di «area produttiva» costruita nel deserto occidentale per drenare acqua verso diversi laghi partendo dal Lago Nasser), l’edificazione di centinaia di città satelliti e via elencando, lungo quella che potrebbe essere definita l’ambiziosissima «strategia arabica» di Al Sisi. «Arabica» in che senso? Nel senso che la governance dell’ultimo raìs egiziano trae in primo luogo la propria ispirazione dai Paesi del Golfo Persico (Emirati Arabi e Arabia Saudita in primis), che negli ultimi anni hanno trasformato le loro terre in avamposti internazionali dell’economia, del turismo, dello sport e della cultura. Modelli discutibili e altamente controversi, i quali, visto il portato di «snaturalizzazione» che li accompagna, potrebbero prima o poi mandare a picco porzioni consistenti dell’economia e dei rispettivi ecosistemi. Ma che di fatto, seppur in dispregio di ogni regola ambientale, si presentano come «modelli virtuosi» agli occhi delle altre Nazioni mediorientali, in grado di lanciare le rispettive economie verso il cielo della competitività mondiale.
Una competitività al cui appuntamento Al Sisi non vuole mancare. Non solo per il tradizionale ruolo di «Paese-traino» dell’Egitto, ma perché una competitività mancata rischierebbe di procurare al Paese una drastica marginalizzazione su tutto il tavolato regionale. Ma qui si apre la vexata quaestio della sostenibilità di tale approccio. Non solo in termini di debito ma anche di welfare e tenuta politica. L’Egitto sta infatti pagando tali scelte economiche (diciamolo pure, tale «megalomania») su almeno tre fronti: 1) Quello del deficit di bilancio, che di fatto pregiudica vere politiche di sostegno alle fasce più disagiate, assorbendo nel debito nazionale quanto potrebbe essere destinato all’equilibrio sociale. 2) Quello della povertà, che si attesta intorno al 60% della popolazione totale, concentrandosi il rimanente 40% nelle mani della casta militare e dei grandi imprenditori affiliati. 3) Quello della stabilità politica, minacciata dal risentimento delle classi indigenti ma anche da questioni regionali come le acque del Nilo (il contenzioso con l’Etiopia, sulla distribuzione idrica indotta dalla Diga del Gran Rinascimento etiope, è vecchio di anni) e l’afflusso di profughi (ormai oltre 200mila) dalla guerra sudanese. Tre ambiti che, se il futuro non garantirà i frutti degli investimenti dell’ultimo decennio, rischiano di portare l’Egitto al default.