Sanremo: le idee che lasciano il segno

In Italia raccontano che Sanremo sia lo specchio del Paese. Nel 2023, prima edizione dopo la grande vittoria di Giorgia Meloni, diede scandalo il bacio tra Rosa Chemical e Fedez. In realtà le cose che canta e fa Rosa Chemical, Renato Zero le cantava e le faceva 45 anni fa: il Triangolo è del 1978; e se davanti alla tv i miei nonni, più incuriositi che scandalizzati, mi chiesero se Renato Zero fosse maschio o femmina, già allora qualcuno fece notare che prima di Renato Zero c’era stato David Bowie. Nel 2024 la polemica si accese su Geolier, che cantò in napoletano. Poi, siccome si è sempre meridionali di qualcuno, c’erano gli italiani di origine araba. Che non sono meno italiani per questo, come ha ricordato Ghali. Nell’anno della morte di Cutugno, in pochi avrebbero avuto il coraggio di cantare «sono un italiano vero», una canzone che Toto aveva scritto per Celentano, cui parve troppo nazionalpopolare. Che l’abbia fatto un milanese nato alla Baggina da genitori tunisini è un segnale incoraggiante. Anche se il miglior talento della sua generazione si conferma a ogni occasione Mahmood, anzi Alessandro come lo chiama Amadeus, che fece davvero venire i brividi portando la canzone con cui Lucio Dalla esordì come autore di testi, ed ebbe l’effetto di una fucilata: «Siamo noi, siamo in tanti, ci nascondiamo di notte, per paura degli automobilisti, dei linotipisti. Siamo i gatti neri, siamo pessimisti, siamo i cattivi pensieri; e non abbiamo da mangiare. Com’è profondo il mare…». Questo festival è stato vinto da Olly, con una canzone nata vecchia: pare una cover degli anni Cinquanta, proprio come la canzone dei Måneskin sembrava un remake di un brano degli anni Settanta. Ma la polemica stavolta è esplosa sul brano di Simone Cristicchi, stroncato come se fosse una lagna o un tentativo di strumentalizzazione della malattia.

A me il brano di Cristicchi è piaciuto molto. Dal titolo, Quando sarai piccola, alla frase: «Ti stringerò talmente forte, che non avrai paura nemmeno della morte». Forse è l’unica canzone che mi abbia davvero appassionato. E in effetti è difficile oggi, almeno per uno della mia generazione, appassionarsi a questi trapper tatuati, a questi rapper delinquenti, a queste canzoni un po’ tutte uguali, anche perché sono scritte dalle stesse persone. Giorgia è meglio della canzone che ha portato a Sanremo. Quella di Gabbani è orecchiabile, ma in passato aveva fatto di meglio. Lucio Corsi con Volevo essere un duro ha l’effetto che ebbero Lodo Guenzi e Dargen D’Amico: la salutare increspatura nel vetro, infatti è arrivato secondo. Tra i testi soltanto due sono, a mio avviso, destinati a restare. Quello di Brunori Sas, dedicato allo straniamento dei padri che non riconoscono più i figli: un’esperienza che abbiamo fatto tutti, l’adolescenza dei nostri ragazzi dura un centesimo di secondo, il tempo di distrarci dietro al lavoro e alla vita e loro sono già altrove, irriconoscibili. Ma il testo di Simone Cristicchi è di un altro pianeta. Non conosco una persona che l’abbia ascoltato senza commuoversi. Anche chi non ha avuto una mamma malata di Alzheimer non può restare insensibile di fronte a parole così dolci, così definitive, così dirette. Cristicchi è un artista meraviglioso. I suoi spettacoli su san Francesco, sulla spedizione in Russia, sugli esuli istriani, giuliani e dalmati, sul trentatreesimo canto del Paradiso di Dante sono straordinari. «Per la società dei sani siamo sempre stati spazzatura / questa è malattia mentale e non esiste cura» è il verso più forte scritto da un italiano dai tempi di Povera patria di Franco Battiato e, appunto, Com’è profondo il mare di Lucio Dalla.

Dalla il festival non l’ha mai vinto e non lo amava. Cristicchi sì. Non aveva bisogno del festival; ma il festival aveva bisogno di lui. Eppure, al di là delle critiche, tutte legittime, colpisce il clima di disprezzo, ai limiti dell’odio, che non da oggi accompagna Cristicchi (accanto all’affetto dei suoi estimatori). Gli si imputa, tra le tante cose, di essere «di destra». Fondamentalmente per due motivi. Ha criticato la gestazione per altri. E ha fatto uno spettacolo sulle foibe, che gli è costato contestazioni, occupazioni di teatri, minacce. Forse però sarebbe davvero il momento di andare oltre le categorie di destra e sinistra; se non in politica, dove conservano senso, almeno nell’arte e nello spettacolo. Agli artisti di politica non importa molto; importa, giustamente, di loro stessi e della loro arte. Che parla a tutti.

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