Tracce culturali lungo frontiere condivise

«Sono partito dal duomo di Milano seguendo l’indicazione di Giovanni Pozzi a proposito di una spinta religiosa che è anche culturale. Ma c’è dell’altro. A ricordarmelo è un foglietto di appunti che tengo accanto al computer: “…spinta culturale da sud: vedi Milano; cultura e religione: sempre Milano e Carlo Borromeo (approfondire le visite pastorali); cercare nelle chiese le parole (cioè la lingua) e le immagini; guardare oltre la religione: di nuovo Milano, Risorgimento, esuli, arte; controspinta dal nord. Riforma e Controriforma”».

Lorenzo Sganzini è stato autore, un paio di anni fa, di In Svizzera. Sulle tracce di Helvetia (Mendrisio, Gabriele Capelli editore, 2022), sorta di viaggio condotto con buon piglio alla ricerca delle simbologie letterarie, monumentali, artistiche eccetera dell’idea di Svizzera e in parte dell’idea sorella di Svizzera italiana. Vi erano presentate e discusse le rappresentazioni artistiche, la tradizione di taluni luoghi sacri del Paese come il Ridotto nazionale o il Passo del Gottardo, la concezione dei confini, le rappresentazioni geografiche e cartografiche, l’importanza e la portata simbolica delle vie di comunicazione alpine, le religioni e, ovviamente, le lingue.

Quel libro era stato un’opera decisamente orientata alla dimensione elvetica, che aveva lasciato in secondo piano e tutto sommato quasi rinviata la riflessione a proposito di una magnifica ossessione di gran parte della produzione letteraria e saggistica della Svizzera a noi più prossima, il tema dell’essenza e delle forme dell’italianità del Paese. Una italianità che da sempre assume geometrie diverse: quella essenziale del territorio geografico tradizionale ticinese e grigionitaliano, l’espressione nelle altre regioni della Svizzera o ancora la tentazione continua di un equilibrio culturale finalmente pacificato con la madrepatria d’Italia.

È così che giunge quasi annunciato l’appuntamento con L’eco del sì. Presenze di cultura italiana in Svizzera, che esce ora presso l’editore Giampiero Casagrande di Lugano e che chiarisce fin dalle prime pagine l’esigenza di ricercare «luoghi capaci di raccontare qualcosa sui rapporti tra la Svizzera e la cultura italiana». Il libro è retto da una gradevole narrazione che potremmo definire “itinerante”, che si appoggia principalmente sulla capacità evocativa di luoghi via via raggiunti, cui legare simboli, figure di mediazione, agenzie del sapere, libri.

In entrata, il viaggio non può non registrare le testimonianze sul territorio e il loro spirito essenzialmente locale. Così il culto di Carlo Borromeo, che affratella le terre della Svizzera italiana alla Lombardia (di San Carlo «nel solo Ticino si contano 351 dipinti, 78 reliquiari e 38 statue»), è introdotto dall’immagine dell’affascinante struttura interna della chiesa romanica dei santi Pietro e Paolo a Biasca, costruita sulla roccia, che affiora primigenia nell’edificio, e che contiene un ciclo di affreschi raffiguranti la vita del santo; poco accanto, quasi per una ulteriore sottolineatura, sorge un altro edificio sacro dedicato molti secoli dopo allo stesso San Carlo. Più avanti, in tutt’altro contesto, colpirà la dolente visita alla Villa Favorita di Castagnola, sede dismessa da decenni di memorabili mostre del passato, nel contesto della Collezione Thyssen-Bornemisza poi migrata a Madrid. L’edificio è significativamente malconcio: ci si è premurati di portare via tutti i quadri di pregio e di rimuovere le maniglie delle porte, ma è stato lasciato, con gesto disattento e irrispettoso, il ritratto di una donna opera di Luigi Rossi, «forse il più rappresentativo tra i pittori ticinesi del periodo a cavallo tra Otto e Novecento».

L’opera di Lorenzo Sganzini insiste molto sul libro e sulle sue istituzioni, sui luoghi della sua conservazione. A San Gallo, l’abbazia benedettina e la biblioteca costituiscono l’esempio più vivido del culto del documento medievale, centro di trascrizioni di codici e di custodia del sapere; la tappa in quei luoghi è pure occasione per un discreto sondaggio dell’ipotesi che Umberto Eco vi avesse soggiornato preparando il Nome della rosa: lo sostengono alcuni siti internet, quantificando in qualche mese il periodo della visita in città dello scrittore e semiologo; ma il fatto resta indimostrato e misterioso, come molte cose relative a quel romanzo.

Tanti posti visitati da Sganzini sono luoghi variamente legati ai libri: le storiche tipografie nel borgo di Poschiavo, critico crocevia geografico, linguistico e di confessioni religiose; i fondi di Giuseppe Prezzolini, Massimo Mila, Guido Ceronetti, Fulvio Tomizza depositati presso istituzioni svizzere e svizzere italiane; le attività di pubblicazione settecentesche e ottocentesche avviate dalla storica tipografia Agnelli di Lugano: «I volumi della Bibliografia ticinese dell’Ottocento segnalano 5586 edizioni di almeno 9 pagine pubblicate tra il 1800 e il 1899», per la maggior parte uscite nei primi decenni del secolo. Impressionano, e il lettore trarrà grande profitto dalle pagine loro dedicate, la fondazione Bodmer di Cologny e la Biblioteca Oechslin ad Einsiedeln. Ad esempio, la prima conserva «150’000 documenti in 120 lingue con centinaia di papiri, di manoscritti medievali occidentali e orientali, 270 incunaboli tra cui uno degli esemplari ancora esistenti della Bibbia di Gutenberg e la più antica copia manoscritta del Vangelo secondo Giovanni».

Tra i percorsi possibili di questo itinerario alla ricerca delle presenze reciproche della cultura italiana in Svizzera e svizzera in Italia ci sono anche quelli legati ai centri di diffusione del sapere e della cultura; «sono gli studi e il luogo dove si studia a determinare il nostro sguardo sul mondo»: numerosi ticinesi prima dell’apertura della galleria ferroviaria del San Gottardo, nel 1882, sceglievano volentieri l’Italia per la loro formazione superiore; soprattutto le università di Pavia e Padova o l’Accademia di Brera, nella quale il «Regesto delle iscrizioni porta oltre mille nomi di ticinesi, alfabeticamente compresi tra Pietro Adamini e Giovanni Zuccotti». Anche qui, il viaggio di Sganzini tocca tappe e istituzioni diverse: l’ETH di Francesco De Sanctis, o Friburgo e la sua università: nell’inverno del 1948, un giornale locale annuncia la conferenza in città di Eugenio Montale, presentato per l’occasione da Gianfranco Contini. Sono, queste, figure di mediazione tra molte altre del libro, che, volendo, conducono verso ulteriori prospettive e altri avvenimenti culturali: il soggiorno dell’umanista Poggio Bracciolini alle terme di Baden («gli usi, i costumi, la piacevole maniera di vivere dovuta alla libertà estrema delle abitudini»), il viaggio a Basilea di Enea Silvio Piccolomini, Pio II («gli appartamenti sono così ben arredati e così puliti da superare quelli di Firenze»), i giudizi sugli svizzeri di Machiavelli e Guicciardini, le testimonianze di Giorgio Orelli e Mario Botta.

Strada maestra del libro di Sganzini è ovviamente il ragionamento dedicato alla lingua italiana. Tra le immagini più riuscite di questo riuscito libro ci sono quelle che testimoniano la conquista spesso faticosa di un italiano dell’uso medio, che sapesse prendere le distanze dal latino e dalla varietà dotta ma anche dal dialetto, per consegnare finalmente anche alla comunità della Svizzera italiana un proprio codice naturale, quello di tutti i giorni espresso in uno scritto equilibrato e accessibile.

Quello della seicentesca Bibbia del lucchese-ginevrino Giovanni Diodati è tutto teso a «una frase il più possibile lineare e diretta, nella quale appianare tutte quelle strutture sintattiche che avrebbero potuto pregiudicare la chiarezza e la semplicità del discorso». Ma soprattutto, quello dell’italiano nascente dei Sonetti di Petrarca è oggetto di una esperienza rivelatrice, colta sul codice basilese del 1554 conservato all’Archivio di Stato a Bellinzona.

Certo, dei rapporti linguistici e forse anche di quelli culturali nella Svizzera italiana, e soprattutto di una relazione più ampia che forse ancora non ha trovato la pace per tanto e tanto tempo auspicata, restano intense e marcanti le parole di quasi quaranta anni or sono del linguista Sandro Bianconi, nell’osservazione di un concreto e insieme metaforico contrasto architettonico e culturale nel suo stesso villaggio di origine, in una delle migliori immagini parlanti dell’essenza socioculturale svizzera italiana. Parole che ancora richiamano l’esempio dell’edilizia religiosa, sia essa nobile o rurale, e che sono rivelatrici di una sorta di destino dicotomico; frasi che non avrebbero forse stonato tra le pagine di questo comunque molto bel libro di Lorenzo Sganzini: «Il sagrato di Mergoscia, con la bellezza e l’armonia dei volumi, degli spazi e dei linguaggi architettonici “colti”, fortemente contrastanti con la rusticità dell’ambiente naturale e dei poveri insediamenti urbani circostanti; deve essere nato lì in me il senso dell’esistenza di due anime, due culture, due linguaggi come elementi costitutivi di questa terra lombarda».

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