Trump è davvero il «grande Satana»?

Donald Trump ha la capacità di seminare il panico tra i suoi avversari, e di incarnare ai loro occhi il «male supremo». Di recente si fa affiancare da Elon Musk in questo ruolo del «grande Satana». È facile cadere nel gioco, e addebitargli tutti i mali dell’umanità: la sconfitta dell’Ucraina ora è colpa sua, come pure la tragedia dei palestinesi a Gaza, e naturalmente il protezionismo commerciale con tutti i danni che esso genera. A seguire certe narrazioni, si ha quasi l’impressione che il mondo sia all’«Anno zero»: tutto andava così bene prima di lui… Per non cadere in queste semplificazioni, è bene guardare dietro le apparenze. Sul dialogo con Putin e sulle guerre commerciali, per cominciare. Trump ha detto cose sconvolgenti sull’Ucraina, provocando l’ira di Zelensky che si sente tradito, pugnalato alla schiena. Alcune delle affermazioni del presidente americano sono insulti gratuiti e volgari contro un leader che ha saputo guidare la resistenza del proprio Paese contro un’aggressione militare. Altre appartengono alla categoria delle «verità scomode». Altre sono delle bugie o forzature, che colludono con la propaganda russa, e però circolano da tempo anche in Occidente: nelle destre putiniane, nelle sinistre radicali, in un vasto mondo che si considera pacifista.

Trump ha detto che per sedersi a un tavolo di negoziati Zelensky dovrebbe sottoporsi al verdetto dei suoi elettori. Qui il presidente Usa solleva un tema imbarazzante e delicato. In Ucraina dovevano tenersi le elezioni l’anno scorso, ma in base alla normativa locale non si può andare al voto finché è in vigore lo stato di emergenza o legge marziale. Quindi formalmente il rinvio delle elezioni è ineccepibile. Tuttavia fa aleggiare un dubbio sulla legittimità di Zelensky, sull’effettivo consenso del popolo ucraino verso le sue scelte. Naturalmente è paradossale che Trump sollevi dubbi sulla qualità della democrazia ucraina, nel momento stesso in cui legittima un autocrate criminale come Putin. E tuttavia le riserve sul mandato popolare a Zelensky sono fondate. Sempre nella categoria delle verità scomode: Trump ha fatto allusione alla mancanza di trasparenza sul modo in cui l’Ucraina ha speso gli aiuti americani. Difficile dargli torto. Anche perché le molteplici «purghe» ai vertici del Governo e delle forze armate ucraine hanno avuto come sfondo anche scandali di corruzione. Trump ha detto che Zelensky poteva evitare di cominciare questa guerra. Per il modo in cui questa frase gli è uscita di bocca è probabile che non intendesse accusare l’Ucraina di aver iniziato le ostilità, bensì di non aver fatto il necessario per impedire il conflitto. Qui il retroterra è noto: esiste una corrente di pensiero – putiniana ma non solo, è una teoria accreditata da tempo in ambienti diplomatici dell’Europa occidentale – secondo cui Kiev non sarebbe del tutto innocente, perché avrebbe contribuito ad aizzare Putin calpestando alcuni elementi degli accordi di Minsk.

Trump ingigantisce l’entità delle spese americane per l’Ucraina, minimizza quelle europee, sfoggiando la sua abituale disinvoltura con i numeri. Qui lo sfondo e il retroscena è duplice. Da una parte Joe Biden non è riuscito a convincere in modo durevole una maggioranza di americani che in quella guerra siano in gioco interessi vitali della Nazione. D’altra parte l’Europa ha mantenuto una parvenza di unità (con eccezioni e distinguo sulle sanzioni) finché c’era lo «Zio Sam» a disciplinarla e mantenerla coesa. Ma anche nella fase della massima unità apparente sotto Biden, in Europa vaste aree di opinione e forti lobby economiche mugugnavano, lamentando di essere asservite agli interessi americani. Non appena è cambiata la linea della Casa Bianca con l’arrivo di Trump, le divisioni europee sono riesplose. Il vertice convocato da Macron a Parigi è stato visto a Washington come la conferma che Trump ha ragione a non coinvolgere gli europei nelle trattative di Riad sulla tregua: che bisogno c’è di includere al tavolo del negoziato un gruppo di Paesi così poco compatto? Con il britannico Starmer che promette truppe in Ucraina mentre il tedesco Scholz le nega?

Sulle guerre commerciali, Mario Draghi ha spazzato via l’idea che i dazi siano una malefica invenzione trumpiana. L’Europa – ha spiegato – è malata di protezionismo da molto tempo, lo pratica perfino contro se stessa, con una montagna di barriere interne che vanificano i vantaggi del suo mercato unico. Draghi si riferiva al protezionismo infra-europeo, il suo discorso vale a maggior ragione per quello extra-Ue. Nei confronti degli Stati Uniti le grida europee che denunciano i dazi di Trump sono ingiustificate o disinformate. L’opinione pubblica europea spesso non lo sa, e quindi in buona fede pensa che il mondo stia scivolando verso un’assurda guerra commerciale per colpa del nuovo presidente americano. La maggioranza dei cittadini europei ignora, per esempio, che l’Imposta sul valore aggiunto (Iva) funziona come un gigantesco sussidio all’esportazione, quindi va ad aggiungersi ai dazi come strumento protezionista che distorce la concorrenza tra Nazioni. Non a caso Trump prende di mira anche l’Iva europea, tra quelle misure che vuole contrastare e compensare con i suoi dazi (per adesso Trump ha incaricato il suo dicastero del Commercio di completare un’indagine conoscitiva, ad aprile deciderà il da farsi, cioè se varare dazi «di reciprocità» contro l’Europa).

L’effetto dell’Iva come sussidio all’export va ad aggiungersi alla questione dei dazi veri e propri: anche su questi, che sono tasse doganali, l’America è uno dei Paesi meno protezionisti al mondo. L’ultima stima dell’Organizzazione mondiale del commercio valuta i dazi medi americani al 2,2% pur dopo gli aumenti di Trump nel 2018 e di Biden nel 2021; sono la metà di quelli europei e un quarto di quelli cinesi. Un esempio specifico, nel settore dell’auto, indica un divario ancora maggiore: l’Europa punisce le importazioni di vetture Usa con un dazio del 10% mentre il reciproco, cioè il dazio Usa sulle auto europee importate, è del 2,5%. Questi dati dovrebbero spingere a ridurre il baccano che incolpa Trump di trascinare il mondo verso un’Apocalisse economica scatenata dalle guerre commerciali. I Paesi che sono presi di mira, e l’Ue nel suo insieme, hanno un potente strumento per contrastare i nuovi dazi di Trump: mettere sul tavolo del negoziato transatlantico delle concrete proposte per ridurre le loro barriere. I margini ci sono, per offrire contropartite sostanziose a Trump, visto il livello di protezionismo da cui parte l’Europa. A questo si aggiunge un tema ancora più generale sollevato da Draghi. L’Europa soffre di una crescita debole e asfittica da decenni. L’America è diventata da molto tempo la sua locomotiva trainante, con un mercato aperto che assorbe i prodotti, ad esempio, del made in Germany e del made in Italy. Se l’Ue vuol essere meno dipendente dagli Stati Uniti deve affrontare le ragioni strutturali della sua stagnazione. E molto spesso le terapie necessarie consistono nel rendere l’Europa un po’ più simile all’America. In questo contesto la demonizzazione di Trump rischia di diventare un ulteriore diversivo, che distoglie l’attenzione dai problemi veri, inventa un capro espiatorio, e fornisce all’Europa nuovi alibi perché tutto rimanga come prima.

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