«Vedi, noi non siamo solo il Paese più giovane dell’Africa, ma siamo anche la democrazia più giovane. E proprio per questo posso assicurarti che non è certo una democrazia matura». Sono queste le parole di Abraham, un piccolo commerciante di Juba, la capitale del Sud Sudan, che danno una fotografia abbastanza precisa dell’attuale situazione politica e sociale nel Paese. Nato nel 2011, dopo una lunga e sanguinosa guerra civile per separarsi dal Sudan, all’inizio si respirava fiducia e speranza per una nuova era, ma invece la storia ha continuato ad essere segnata da conflitti, sfide politiche, catastrofi umanitarie. Perché non sono passati che pochi anni dall’indipendenza dal Sudan che nel 2013 nell’appena nato Sud Sudan scoppia una nuova guerra civile interna, una lotta di potere tra il presidente Salva Kiir Mayardit e il suo vice Riek Machar. Entrambi erano stati leader nel movimento armato dell’Spla (Sudan people’s liberation movement) che aveva lottato per l’indipendenza da Kartoum e ora i due si combattevano tra loro non solo per un’egemonia politica, ma anche per un’egemonia etnica e culturale. Infatti il primo appartiene all’etnia Dinka tradizionalmente pastori, mentre il secondo all’etnia Nuer che sono agricoltori, e sono le due principali comunità del Paese. Una guerra civile durata 5 anni, fino al 2018, che ha devastato la regione e provocato centinaia di migliaia di morti, feriti e un milione almeno di rifugiati sia interni sia nei Paesi vicini, soprattutto Uganda ed Etiopia. Un conflitto che ha avuto un costo umano enorme, dove violenze, massacri, stupri, reclutamento di bambini e distruzione di villaggi sono stati perpetrati da entrambe le parti e giustificati dalla folle ideologia dell’appartenenza etnica.
In un gioco beffardo del destino la conclusione della guerra civile ha fatto ritrovare di nuovo, nella stessa posizione ai vertici della politica del Sudan meridionale, in un Governo di unità nazionale, Salva Kiir Mayardit come presidente e Riek Machar vice. In ogni caso le divisioni etniche rimangono fortissime e gli ambiziosi leader non si fidano l’uno dell’altro. Questa voglia di egemonia tra i due ancora oggi mette in mostra e definisce chiaramente gli schieramenti politici del Sud Sudan e nel Paese si continua a respirare aria di instabilità politica.
La dimostrazione è stata il rinvio di due anni delle elezioni, le prime dal 2011, che dovevano svolgersi a dicembre 2024. Il motivo: preparazione dell’organizzazione e progressi su alcuni punti dell’accordo di pace del 2018. In particolare l’unificazione delle forze armate e una Costituzione permanente per il Paese. «Sono passati 14 anni dall’indipendenza e tanti dalla fine della guerra civile – mi dice Mary, una venditrice di chapati (tipo di pane senza lievito, simile a una piadina) – ma noi dobbiamo ancora risollevarci». Mary è dietro al suo bancone, all’angolo di una strada polverosa, vicino alle sedi di alcune Ong internazionali. Avvolta in una tunica azzurra, i capelli raccolti in un foulard, due occhi neri circondati da un viso dolce, impasta farina e acqua mentre sua figlia serve i pochi clienti. «Certo, continua Mary, i mercati sono pieni di gente, le strade piene di auto, ma le cicatrici lasciate dalla guerra sono ancora evidenti.
La maggior parte della gente non ha soldi, i giovani non hanno lavoro, scuole e ospedali sono insufficienti». In un Paese con poche infrastrutture, un accesso limitato all’istruzione e alle cure sanitarie, milioni di persone vivono in condizioni di estrema povertà. Le Nazioni Unite calcolano che più del 70% della popolazione sud sudanese ha bisogno di assistenza umanitaria, mentre l’Unhcr, l’agenzia Onu per i rifugiati, calcola che nel Paese ci sono più di 2 milioni di persone che vivono nei campi profughi. Eppure il Sud Sudan è potenzialmente un Paese ricco, grazie agli immensi giacimenti di petrolio. Quasi il 100% delle entrate statali sono legate all’oro nero. Ma anche qui ci sono degli ostacoli che limitano la crescita della Nazione: gli impianti per l’estrazione e il trasporto del petrolio sono inadeguati, mentre praticamente non esistono raffinerie interne. Il petrolio, se da un lato è la risorsa, dall’altro è un cappio al collo perché la sua economia si basa sulle fluttuazioni dei mercati internazionali. In più la forte corruzione, le diffidenze tra etnie e il nepotismo che ha concentrato tutti i punti nodali dell’economia nelle mani di pochi, non aiutano a far risollevare il Paese in tempi brevi. E intanto poliziotti, insegnanti e impiegati statali non ricevono lo stipendio da mesi. «Questa mancanza di soldi e insicurezza sociale non si vede ma sta creando tensioni, anche se per adesso sono sommerse», mi dice Abraham, occhi profondi e mani nodose, seduto all’interno del suo negozietto, punto di vista privilegiato sugli umori dei sud sudanesi.
Mi immergo in uno dei più grandi mercati di alimenti della città. Le bancarelle con le varie mercanzie sono allineate una dopo l’altra e la luce filtra dai teli che fanno da tetto. La verdura la fa da padrone. Lungo i piccoli spazzi, tra una bancarella e l’altra, donne con bambini sulla schiena rovistano cercando di trovare il prodotto migliore mentre uomini madidi di sudore trasportano sulle spalle enormi e pesanti sacchi di vegetali. «Khawaja, khawaja» (termine che qui usano per identificare l’uomo bianco, anche se il vero significato della parola araba è maestro) gridano le venditrici per attirare la mia attenzione e riuscire a piazzare qualcosa. Nelle strade polverose intorno al mercato si ripete il via vai continuo di auto seguito dagli inevitabili ingorghi, così come l’incessante e continuo cammino delle persone. Nelle vie alberate e asfaltate intorno alla residenza del presidente invece le auto corrono veloci, la presenza della polizia è a ogni incrocio, ville residenziali si alternano a scuole missionarie con curati campi di calcio o di basket. Visto da qui il Sud Sudan sembra tutto meno che uno dei Paesi più poveri del Continente africano. Ma bisogna uscire dalla capitale e inoltrarsi nel nord del Paese, a cinque sei ore di auto da Juba, per scoprire un altro Sud Sudan. È qui che si percepiscono in maniera netta le condizioni di povertà e insicurezza sociale di questa realtà. Piccoli villaggi che sopravvivono con l’agricoltura, nessuna infrastruttura, zero scuole o ospedali, ragazzini che già all’età di 8 o 10 anni lavorano nei campi, giovani che fanno passare il tempo seduti all’ombra di un baobab, venditori di carbone (ancora oggi il principale combustibile fuori dalla capitale), donne circondate da una moltitudine di bambini che cucinano un porridge di miglio.