Lo «spirito di Locarno» compie cent’anni

by Claudia

Nell’ottobre 1925 nella città sul Verbano giunsero i leader dei maggiori Paesi europei per tentare di salvaguardare la pace

Siamo entrati nel centenario celebrativo della Conferenza di Locarno, che si tenne dal 5 al 16 ottobre 1925, a suggello della consapevolezza delle maggiori Nazioni europee che bisognasse imprimere un forte correttivo alle strette maglie della cosiddetta «Pace di Versailles» del 1919, violentemente punitiva nei confronti dello sconfitto Reich tedesco. Il vertice, ospitato nel Palazzo di giustizia della città sul Verbano, vide la partecipazione di Italia, Francia, Gran Bretagna, Belgio, Germania, Polonia e Cecoslovacchia. Il municipio di Locarno ebbe parte attiva, sia nel promuovere sia nell’accogliere al meglio l’incontro tra i Grandi del tempo: fu infatti lo storico sindaco liberal-radicale Giovanni Battista Rusca a voler intavolare, a latere dell’attività della Società delle Nazioni di Ginevra, quel dialogo «in campo neutro» che sortì risultati molto importanti, anche se purtroppo non decisivi ai fini della costruzione di una durevole distensione internazionale. Quanto fosse necessario operare sul fronte della prevenzione di nuovi conflitti, nel ventennio di pace instabile tra le due guerre mondiali, è dimostrato dal numero infinito di volte in cui, nel corso degli anni, venne richiamato il ritorno allo «spirito di Locarno». Il summit in terra ticinese si concluse con la ratifica di un atto solenne: un trattato che, se da un lato impegnava i contraenti al rispetto delle frontiere tracciate dagli accordi di pace di Versailles, dall’altro riconosceva e legittimava il peso politico internazionale della Germania, ammettendola nella Lega ginevrina. Tra i vari punti dell’accordo ve n’era uno che prevedeva la creazione di una zona smilitarizzata sulla sponda destra del Reno. L’esito felice della Conferenza di Locarno dipese, in larga parte, dalla pressione esercitata dalla Gran Bretagna sulla Francia, in modo che quest’ultima abbandonasse definitivamente i propositi di rivalsa che, purtroppo, avevano trionfato a Versailles.

Fu in primo luogo l’intesa tra il ministro degli Esteri britannico, sir Austen Chamberlain, e il suo collega francese, Aristide Briand, a partorire il grande successo diplomatico. Ma l’Inghilterra venne favorita, nel suo compito di pacificatrice, dall’Italia di Benito Mussolini: le due Nazioni infatti assunsero la funzione di garanti dell’equilibrio europeo. Questo suscitò peraltro qualche malumore tra i francesi, che non vedevano di buon occhio l’accresciuto peso internazionale di Roma. Se questa è, in estrema sintesi, la narrazione del grande evento che solcò, come una meteora, o come un arcobaleno dopo la pioggia, i cieli d’Europa, va pure ricordato che esiste un altro piano di lettura, più occulto, dentro il quale la Conferenza divenne occasione di importanti consultazioni bilaterali. Ne fu protagonista Mussolini, il quale giunse sulle sponde del Lago Maggiore il pomeriggio del 15 ottobre, alla vigilia della conclusione del supervertice. Il Duce, fin da allora, manifestava la tendenza a condurre una politica estera basata sui contatti personali con i suoi colleghi e omologhi, diffidando del lavoro dei diplomatici di carriera. Mussolini si istallò in una residenza privata, Villa Farinelli, e lì cominciò a ricevere i leader delle delegazioni presenti al tavolo. I colloqui più importanti furono con il capo del Foreign Office, Chamberlain, e con il ministro degli Esteri francese, Briand. L’incontro di Locarno consentì di rompere il ghiaccio con Chamberlain, perché in breve tempo, in un successivo summit riservato tenutosi nei giorni di Natale del 1925 a Rapallo, Mussolini ottenne il «disco verde» dell’Inghilterra all’espansione coloniale in Africa Orientale. Obiettivo che il capo del fascismo raggiunse, dieci anni più tardi, con la conquista dell’Abissinia. Ma fu il succo dell’intervista con Briand a stupire il Duce. Al termine del colloquio con lo statista di Parigi, raccolse infatti la rinuncia francese a ogni opposizione, in linea di principio, all’instaurazione di un regime autoritario in Italia. Bisogna inquadrare il personaggio. Briand, socialista, dieci volte primo ministro tra il 1909 e il 1929, nonché a lungo titolare del Quai d’Orsay, era un pezzo da novanta della Terza Repubblica.

Nel congedarsi da Mussolini, questi ebbe un accenno all’Aventino, la secessione parlamentare di protesta con la quale le opposizioni, in Italia, abbandonarono l’aula della Camera, per riunirsi separatamente, dopo l’assassinio del deputato socialista Giacomo Matteotti. Che cosa si lasciò sfuggire Briand? Disse che l’Aventino aveva perduto la partita e che questo risultato era inevitabile trattandosi di un «vecchio usato personale politico». In tal modo, lo statista francese, legittimando il regime fascista, squalificava completamente la vecchia classe dirigente liberale del Regno, e anche i nuovi attori del processo di evoluzione del sistema politico italiano, i due grandi partiti di massa, quello socialista e il cattolico. Non era un risultato da poco e Mussolini poté considerarsi soddisfatto della sua apparizione sulla scena locarnese.