«Il cammello, quando viene ucciso, sembra una persona. Piange proprio come noi, con le lacrime», spiega Akouan, il responsabile locale dei progetti della Caritas che dipendono dal vicariato apostolico di Mongo, nell’est del Ciad. La loro carne – continua – è molto apprezzata, e da noi viene consumata regolarmente. Negli immensi paesaggi desertici che attraversiamo a bordo di un fuoristrada se ne vedono tantissimi, anche se in realtà sono dromedari ma qui, in francese, li chiamano così, cammelli.
Stiamo andando a vedere lo stato di alcuni programmi avviati mesi fa che riguardano l’inserimento e l’accompagnamento delle donne ciadiane e delle rifugiate sudanesi nei lavori agricoli. Si tratta di uno dei tanti progetti attivati dalle organizzazioni umanitarie che da anni si occupano di sostenere una delle Nazioni più povere al mondo, nonostante le sue ricchezze naturali come il petrolio. Ricchezze non ancora pienamente sfruttate e soprattutto non a vantaggio della popolazione, la metà della quale vive sotto o sulla soglia di povertà. Una situazione che rischia di aggravarsi dopo la decisione del presidente degli Stati Uniti Donald Trump di mettere fine ai contributi di UsAid, l’Agenzia americana per lo sviluppo internazionale che destinava, tramite le attività delle tante Ong, diversi milioni di dollari per combattere la malnutrizione, gli estremismi violenti e le disparità. Un provvedimento al momento sospeso per decisione della Corte Suprema, ma che getta un’ombra di grande incertezza sul lavoro umanitario proprio dove ce n’è più bisogno.
A questo proposito bisogna considerare che il Ciad, quinto Paese africano per estensione, nonostante le sue enormi difficoltà, è stato tra quelli che hanno accolto il maggior numero di rifugiati dal Sudan, arrivati a centinaia di migliaia nelle province vicine al confine. È soprattutto nella regione orientale del Ouaddaï che oggi sono disseminati tanti campi profughi, specialmente nei pressi del villaggio di Metché, ma anche attorno ad Adré e Farchana, piccole località diventate avamposto delle agenzie delle Nazioni Unite che si occupano dei rifugiati. Dal Programma alimentare mondiale, all’Organizzazione internazionale per le migrazioni, hanno tutte un punto d’appoggio in questi luoghi remoti raggiungibili solo attraverso strade sterrate, con molte buche, che rendono ogni viaggio lungo e faticoso.
Alla fine di febbraio nel solo Ciad si contavano oltre 750 mila rifugiati sudanesi scappati dalla violenza delle ostilità scoppiate nel 2023, che hanno creato una nuova grave emergenza umanitaria. Tutti accolti in un territorio, quello desertico del Sahel, caratterizzato dalla scarsità di risorse che devono essere oltretutto condivise con la popolazione locale. La crisi sudanese ha gettato quindi un altro peso su una Nazione in procinto di avviarsi verso lo sviluppo che prosegue con lentezza e fatica. Il tutto mentre il passaggio al potere civile dopo le elezioni legislative, regionali e locali che si sono svolte nei mesi scorsi dovrebbe portare la stabilità politica tanto auspicata ma che non si può ancora dire sia garantita dalla continuità del presidente Mahamat Idriss Déby Itno – chiamato anche Midi – in carica dal 2021 a seguito della morte violenta del padre Idriss Déby, che aveva guidato il Paese per 30 anni. A questo si aggiunga l’insicurezza interna per la presenza di gruppi ribelli, soprattutto nel nord, vicino al confine con la Libia, e i jihadisti dell’Isis e di Boko Haram a ovest, attivi anche e soprattutto nei Paesi vicini, che costituiscono sempre una grossa minaccia. Nei mesi di ottobre e novembre 2024 l’esercito ha infatti subito pesanti attacchi contro i suoi soldati nella regione intorno al lago Ciad. Permangono inoltre rischi legati alla presenza di bande armate nelle province più remote, dove manca la copertura di rete e a volte non è sufficiente la scorta armata, mentre non sono mancati sequestri anche a danno di personale straniero delle organizzazioni umanitarie.
In un contesto già complicato, il Ciad è inoltre sottoposto a continue sfide ambientali al momento incontrollabili, come ad esempio le alluvioni che si verificano puntuali durante il periodo delle piogge. Lo scorso autunno eventi atmosferici eccezionali avevano causato la morte di centinaia di persone e gravissimi danni, soprattutto se si tiene conto che nei villaggi le case hanno pareti di fango e tetti di paglia. Ma per molti è diventata la normalità restare isolati anche per tre mesi di fila durante la stagione umida. Come succede ad Am Timan, un importante centro del sudest, non lontano dalla Repubblica centrafricana, in cui operano diverse organizzazioni umanitarie. Organizzazioni che a seguito dei tagli americani oggi temono un aumento delle domande di aiuto a fronte però di minori mezzi per intervenire. Le Ong più grandi infatti tenderanno a ridurre il personale e la loro sfera di azione o la durata dei progetti, mentre le più piccole, che vivono del sostegno di donatori fissi, potrebbero essere sollecitate maggiormente senza poter accogliere le nuove richieste.
Col rischio che si crei una società ancora più ingiusta in un Paese dove la scuola è un privilegio a cui molti accedono grazie a programmi umanitari. Ma chi vive in villaggi sperduti, senza trasporti pubblici, non può frequentarla. Una società in cui i pastori accompagnano gli animali al pascolo armati di lance e armi da fuoco le dispute tra di loro, anche per questioni da poco, possono sfociare in attacchi violenti e sparatorie. E dove le ragazze sono ancora soggette a matrimoni in giovanissima età, spinte dagli stessi genitori a lasciare la scuola per sposarsi. In questo contesto il futuro sembra ancora molto incerto. Poi c’è anche l’altro Ciad, ancora più invisibile, ed è quello dei turisti che vanno a fare i safari nel Parco nazionale di Zakouma o che si avventurano con la scorta armata nelle zone desertiche a nord della capitale N’Djamena. Per questo, se le Ong terminassero o riducessero il loro lavoro, si sfalderebbe tutto quello che è stato fatto finora. Chi lavora qui da tempo si stupisce nel vedermi sorpresa, quando mi spiega che solo dieci anni fa lo sviluppo in alcune zone era inesistente, e che da allora molto è stato fatto, ma tanto resta ancora da fare.
Largo a russi, cinesi e arabi
Il Forum internazionale delle infrastrutture che si è tenuto dal 18 al 20 febbraio a N’Djamena ha gettato le basi per richiamare in Ciad investimenti e opportunità di sviluppo in un Paese grande due volte la Francia ma con poche strade asfaltate e mezzi di trasporto insufficienti. Un Paese che anche per queste difficoltà di spostamento è rimasto ancorato alle tradizioni e ha mantenuto la sua caratteristica di mosaico formato da un patrimonio culturale di decine di etnie e dialetti.
Nonostante questo, il suo sguardo verso un futuro autonomo, almeno dall’Occidente, è stato sancito dalla fine del lungo accordo di difesa con la Francia, che a fine gennaio ha completato il ritiro dei suoi contingenti restituendo l’ultima base che ancora occupava. La sfera di influenza occidentale sembra così destinata a svanire, soppiantata da una più consolidata presenza russa, oltre che cinese e araba. A lungo considerato nel Sahel uno dei principali alleati dei Paesi europei nel contrasto al terrorismo, il Ciad dovrà ora dimostrare di saper gestire gli equilibri interni ed esterni. Ma la sua presenza nella cosiddetta «Coup Belt», la cintura dei golpe, che sta ad indicare quegli Stati africani confinanti tra di loro che in questi ultimi anni hanno vissuto dei colpi di Stato militari molto ravvicinati nel tempo e con modalità e motivazioni simili (come Mali, Niger e Burkina Faso), allunga dense ombre sulla futura stabilità del i questo Stato africano.