La solitudine che non si può riempire e lo shopping online

by Claudia

Tra le cosiddette «malattie moderne», patologie perlopiù di ambito psichico direttamente riconducibili al nostro odierno stile di vita, ve n’è una che sempre più spesso si può notare descritta a caratteri cubitali nelle riviste popolari, come in quelle accademiche – soprattutto in riferimento alle giovani generazioni, particolarmente sensibili al suo deleterio fascino. Si tratta di un disturbo antico, la cui versione odierna è però direttamente collegabile alla presenza pervasiva di internet nelle nostre vite, al punto da aver recentemente ottenuto la denominazione di «dipendenza da shopping compulsivo online».

Infatti, se è vero che, al pari di altre patologie legate al mancato controllo degli impulsi, anche la sindrome dell’acquisto a tutti i costi rappresenta una realtà da tempo consolidata e ben nota agli psicologi, essa era finora apparsa come legata a categorie dotate di un’indipendenza e un potere d’acquisto ben maggiori rispetto a quella dei giovani. Almeno finché internet non si è confermato come una costante all’interno delle giornate di ognuno di noi, tanto da rendere veramente semplice procurarsi qualsiasi oggetto si scopra di desiderare, indipendentemente dal luogo in cui esso sia prodotto; di fatto, è sufficiente essere in possesso di una carta di credito e l’intero assortimento mondiale è a nostra completa disposizione, come in una sorta di infinito «grande magazzino» globale il cui unico limite è il budget individuale.

Eppure, se si torna alle origini diagnostiche della sindrome da shopping compulsivo per come intesa nella sua forma originaria (la prima comparsa nei manuali di psichiatria risale a fine ’800), diviene chiaro come, già in passato, ciò che ha sempre reso particolarmente interessante il fenomeno in tutte le sue declinazioni sia stata, in effetti, la capacità di adattarsi ai più svariati e molteplici contesti economici e sociali: al punto che proprio dalla sua assimilazione all’interno della cultura popolare del XX secolo viene la classificazione di quella che è forse una delle più intriganti manifestazioni dello shopping compulsivo, ovvero il cosiddetto «G.A.S.» – acronimo che sta per «gear acquisition syndrome», termine traducibile come «sindrome da acquisizione di equipaggiamento»: una denominazione impiegata dai musicisti professionisti per definire l’attitudine ossessiva ad acquistare continuamente nuove attrezzature tecniche – dai semplici strumenti musicali alle apparecchiature sonore per l’incisione e registrazione dei brani.

Del resto, tale «diagnosi» presenta un’origine senz’altro illustre, essendo attribuita nientemeno che al compianto Walter Becker, frontman dei leggendari Steely Dan: questi coniò il termine già negli anni 90, dopo aver assistito ai sintomi preoccupanti di un collega che aveva riempito la casa di chitarre a tal punto da faticare a muoversi all’interno del salotto (per questo, in origine la sigla G.A.S. stava, in verità, per «guitar acquisition syndrome», essendo riferita essenzialmente all’amato strumento).

E chissà cosa penserebbe oggi il buon Becker della deriva a cui l’e-commerce e lo shopping online hanno condotto la sindrome da acquisto compulsivo, peggiorandone enormemente la portata e rendendo il disturbo assai più diffuso di quanto non fosse un tempo. Dopotutto, non è solo la connotazione «rapida» dell’acquisto online – effettuato a distanza e tramite forme di pagamento asettiche, dalle quali il contante è bandito – a rendere così semplice l’essere fagocitati dalla frenesia dell’acquisto; in realtà, sembra chiaro come la mancanza di interazione umana che caratterizza l’online shopping sia un fattore determinante nel favorire l’assuefazione.

E proprio qui, forse, sta il problema principale: perché la grave, profonda solitudine che caratterizza la nostra epoca rappresenta l’alleato migliore per compulsioni d’ogni tipo, grazie alla comoda e attraente «privacy» che accompagna l’atto autolesionista, riparandolo dal giudizio altrui. Forse sarebbe sufficiente essere meno isolati gli uni dagli altri per riuscire a tamponare o arginare quell’urgenza ossessiva che si cela dietro ogni gesto compulsivo – e, magari, limitare i danni (spesso devastanti) che da essa derivano.